Il caso Epstein riaccende i dubbi della base repubblicana verso Trump

C’è una cosa che il Presidente Trump teme più di tutte. E questa cosa non riguarda né i risultati delle elezioni di medio termine, né le sentenze in arrivo dalla Corte Suprema sui dazi, né l’impopolarità delle sue politiche. La cosa che preoccupa Trump più di tutte riguarda l’eco del caso Epstein sulla sua base elettorale. Una base che, va detto, sino ad ora, si è mostrata piuttosto coriacea e leale, e che al Presidente ha saputo e voluto perdonare di tutto. Ma che sulla questione Epstein vacilla. I sondaggi lo mostrano con chiarezza: se la base repubblicana ha un giudizio positivo su buona parte della gestione Trump, è allo stesso tempo molto fredda sul modo in cui il presidente sta gestendo lo scandalo Epstein, rifiutandosi di rendere pubbliche tutte le carte relative al caso, in questo momento custodite dal Congresso. “Se non hanno niente da nascondere - si chiede il trumpiano medio - perché lo nascondono?”. Così, questa faccenda, in cui i non detti suonano fragorosi come i detti, ha preso a ricoprire un ruolo enorme sia tra le preoccupazioni del Presidente sia tra quelle della sua base, in buona parte religiosa, che teme di essersi confusa e di aver sbagliato profeta. La questione, detta in termini molto semplici, è questa: nel 2019, il finanziere newyorkese Jeffrey Epstein fu arrestato per molestie e sfruttamento della prostituzione minorile. Un'accusa che lo aveva già visto coinvolto anni prima e rispetto alla quale aveva patteggiato. Quello che emerse dalle indagini fu che Epstein era il vertice di un gigantesco giro di prostituzione, anche minorile, nel quale le ragazze venivano coinvolte in sontuosi party su un’isola privata e scambiate tra decine di facoltosi e potenti uomini presenti tra le conoscenze di Epstein. La versione di Epstein su tutto questo non è nota, dal momento che il finanziere morì suicida in carcere poco dopo il suo arresto. Ma l’indagine è proseguita, mettendo insieme prove, fatti e nomi. In particolare quello della sua ex compagna, Ghislaine Maxwell, che per anni si era occupata di adescare le ragazze su incarico del suo compagno. Altri nomi che emersero furono quelli degli amici che Epstein invitava sulla sua isola, per condividere cene e donne: il più celebre di questi è, come noto, quello di Andrea Mountbatten Windsor, che da qualche settimana, proprio sull’onda di questo scandalo, ha perso il titolo di principe. Altri nomi, come quello dell’ex presidente Bill Clinton, circolano, anche se non è chiaro quanto fossero coinvolti nel giro di Epstein. Ma uno, per evidenti ragioni, circola più di tutti: quello di Donald Trump. Si sa che, per tutti gli anni ‘90, Trump e Epstein erano stati molto amici. Si sa che Trump, per anni proprietario del concorso di Miss Universo, è sensibile al fascino femminile. Ma soprattutto si sa che esiste un’ampia documentazione relativa all’inchiesta sui crimini di Epstein che il Congresso controllato dai repubblicani non sta rendendo pubblica. E così arriviamo ai giorni nostri, quelli in cui il partito democratico ha divulgato, insieme al New York Times, tre mail ottenute dagli eredi di Epstein nelle quali, secondo il giornale “si dimostra che il presidente Trump potrebbe essere stato più a conoscenza della condotta del signor Epstein di quanto abbia pubblicamente ammesso”. In pratica, anche se le mail non rendono chiaro quanto e come Trump abbia partecipato agli scambi sessuali favoriti da Epstein, chiariscono che ne era a completa conoscenza. Le mail appartengono rispettivamente a un carteggio tra Epstein e Maxwell e a uno tra Epstein e il giornalista Michael Wolff. Nelle mail con Maxwell, Epstein scrive: “Il cane che non ha abbaiato è Trump. La vittima ha trascorso ore a casa mia con lui”. Il nome della “vittima” non è stato reso noto né dai democratici né dal giornale, ma, poche ore dopo, dai repubblicani stessi. Il partito di Trump, infatti proprio in risposta allo scarto in avanti dei democratici, ha voluto dimostrare di non avere niente da nascondere rendendo pubbliche circa 20 mila pagine di documenti relativi al caso Epstein. Pagine tra le quali compare anche questa mail nella versione non secretata e quindi con esplicito riferimento a ‘Virginia’. Virginia è probabilmente Virginia Giuffrè, una figura chiave e una delle principali accusatrici del giro di Epstein, del principe Andrea e autrice, poco prima di suicidarsi, di un memoir che è un atto di accusa esplicito a tutto il sistema Epstein e a una fetta piuttosto consistente dell’altissima borghesia newyorkese. In realtà, però, Giuffrè, che ha lavorato come estetista a Mar-a-Lago, pur venendo interrogata più volte non ha mai fatto il nome di Trump e anzi, nel suo memoir lo scagiona da ogni accusa. Il che rende complicata la ricostruzione univoca della vicenda che vorrebbero trarne i democratici e di fatto smorza l’effetto ‘pistola fumante’ che chi ha divulgato le mail sperava di ottenere. Più esplicito, ma di nuovo lontano da ogni chiara accusa, è invece il carteggio tra Epstein e Wolff, in cui il giornalista esorta più volte a fare il nome di Trump, senza però, evidentemente, ottenere risultati. Allo stato attuale dunque, la pubblicazione di questi nuovi documenti, in realtà non prova e non smentisce nulla di più di quel che già si sapeva e che già alcuni mesi fa il Wall Street Journal aveva scritto, ossia che il nome di Trump compare negli Epstein Files ma che la presenza in quei carteggi non è di per se una dichiarazione di colpevolezza. Il punto però è che, oggi, nei volubili equilibri poltici americani, un sospetto vale quanto se non più di una condanna.

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Luciana Grosso