Sharm el Sheikh: chi c’è al tavolo nel negoziato per Gaza?

Nelle prossime ore, o forse nei prossimi giorni, sapremo che esito avranno avuto i colloqui di pace di Sharm el Sheikh. Il compito, certo, è arduo: si tratta di mediare una pace tra Israele e Hamas, dopo due anni di guerra, sulla base del piano in 20 punti stilato da Donald Trump e dai suoi consiglieri. Se l’accordo fosse approvato dovrebbe portare, almeno nelle intenzioni, alla fine della guerra, al rilascio degli ostaggi, al ritiro delle truppe israeliane dalla Striscia, all’insediamento di un governo tecnocratico, guidato da un ‘Board of Peace’ presieduto da Donald Trump, e al sostanziale discioglimento di Hamas. Se invece dovesse essere respinto, probabilmente, si aprirebbe un ulteriore baratro per l’intero Medio Oriente dai confini difficili da circoscrivere. È evidente perciò che gli occhi di buona parte del mondo siano puntati sulla località del Mar Rosso dove al tavolo delle trattative ci sono sia rappresentanti della dirigenza di Hamas, o di quel che ne resta, sia esponenti del governo israeliano. Mentre il compito di mediare toccherà ad alcuni delegati di Qatar e Stati Uniti. Questo incarico di mediazione toccherà essenzialmente agli inviati americani Steven Witkoff e Jared Kushner. I due, come noto, sono piuttosto nuovi agli ambienti della diplomazia internazionale, soprattutto il primo: Witkoff infatti è un immobiliarista amico personale di Donald Trump e fino all’inizio del 2025 non si era mai occupato di diplomazia e politica estera e il suo primo incarico, in tal senso, è stato quello di inviato speciale per il Medioriente. Il secondo, Jared Kushner, ufficialmente non ha nessun incarico e nessun ruolo, se non quello di imprenditore e genero del Presidente americano , ma il suo coinvolgimento viene letto come un segno della serietà di Trump nel raggiungere un accordo per porre fine alla guerra. Già consigliere chiave di Trump per il Medio Oriente durante la sua prima amministrazione ed eminenza grigia dei cosiddetti ‘Accordi di Abramo’ Kushner non ha mai smesso di essere una figura chiave della presenza americana nella regione. Anzi. Dopo la fine della prima presidenza Trump, Kushner lanciò un fondo di private equity generosamente finanziato dal governo dell’Arabia Saudita e dalle monarchie del Golfo. Figlio di una famiglia ebrea ortodossa del New Jersey, Kushner conosce e frequenta da sempre il premier israeliano Benjamin Netanyahu e la sua famiglia ma negli ultimi anni ha stretto un legame particolarmente stretto con il principe ereditario saudita Mohammad Bin Salman, con cui – cronache rivelano – “chatta direttamente su WhatsApp”. A lui e a Witkoff, secondo i media israeliani il presidente avrebbe dato istruzioni chiare: non lasciare l'Egitto senza un accordo. Al loro fianco, a fare su e giù per i corridoi, ci saranno il primo ministro del Qatar, lo sceicco Mohammed bin Abdulrahman al-Thani, insieme al capo dell'intelligence turca e stretto collaboratore e consigliere personale di Recep Tayyip Erdoğan, Ibrahim Khalin. Saranno loro a fare da garanti per Hamas e per la causa palestinese, e a loro toccherà il ruolo di vigilare affinché l’accordo non sia sbilanciato troppo in direzione di Israele, oltre a dover far digerire ai rappresentanti di Hamas un piano che, nei fatti, prevederebbe la sua resa. Kalin ha avuto colloqui con funzionari statunitensi, egiziani e qatarioti e con rappresentanti del gruppo militante palestinese Hamas prima dei colloqui indiretti con Israele. Dal lato egiziano, è confermata invece la presenza “del capo dell’intelligence”, molto probabilmente, Hassan Mahmoud Rashad. Nonostante gli sforzi dei mediatori, che passeranno da una stanza all’altra, la vera responsabilità di chiusura dell’accordo tocca alle due parti in causa: Hamas e Israele. Sulla delegazione del primo, ormai ridotta a lumicino, l’unico nome confermato è quello del suo attuale leader Khalil al-Hayya: sopravvissuto a un raid israeliano in Qatar il mese scorso, La sua influenza nel gruppo militante è diventata sempre più forte man mano che altri alti funzionari di Hamas tra cui Ismail Haniyeh e Yahya Sinwar sono stati uccisi negli attacchi israeliani. Sessantaquattro anni, originario della Striscia al Hayya è un membro veterano del gruppo, di cui fa parte fin dalla sua fondazione nel 1987. Considerato in possesso di buoni rapporti con l'Iran, una fonte vitale di armi e finanziamenti per il movimento, è stato strettamente coinvolto negli sforzi del gruppo per mediare diverse tregue con Israele, svolgendo un ruolo chiave nella conclusione della guerra del 2014 e, di nuovo, nei tentativi di porre fine all'attuale conflitto. Accanto ad Al-Hayya, ci potrebbero essere Ghazi Hamad, Bassem Naim e Mousa Abu Marzouk, altri membri di spicco dell’ufficio politico in Qatar. La loro partecipazione non è confermata ma secondo i media arabi è presente “gran parte della leadership di Hamas all’estero”. A rappresentare il governo di Tel Aviv nella località del Mar Rosso sarà una folta delegazione composta – stando alla stampa israeliana - da Ophir Falk, consigliere speciale di Benjamin Netanyahu, Gal Hirsch, coordinatore del governo per gli ostaggi, Nitzan Halon, responsabile dell’esercito israeliano per gli ostaggi e due ‘anonimi’ ossia l’Agente M e l’Agente D dello Shin Bet, i servizi segreti interni di Israele. Ma soprattutto, da Ron Dermer, 54 anni, a capo dei team negoziali israeliani da febbraio. In qualità di ministro degli Affari strategici del Paese, è ampiamente considerato uno dei consiglieri più stretti e fidati del Primo Ministro Benjamin Netanyahu. Nato e cresciuto a Miami Beach, in Florida, Dermer ha coltivato forti legami con i politici statunitensi, in particolare all'interno del Partito Repubblicano. In precedenza, è stato ambasciatore di Israele negli Stati Uniti dal 2013 al 2021. La sua influenza si estende oltre la diplomazia convenzionale. I media statunitensi e israeliani lo hanno citato come uno stratega chiave dietro iniziative significative, tra cui gli sforzi per normalizzare i legami di Israele con gli stati arabi. In Egitto, si prevede che Dermer terrà fede alla visione di Netanyahu di una “vittoria totale” contro i miliziani islamisti.

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Luciana Grosso