La verità che manca sul 7 ottobre

Dal 7 ottobre del 2023 sono passati due anni e il bilancio è di 1200 morti israeliani, più di 60mila morti palestinesi, più di mille soldati israeliani caduti, più di 100 ostaggi uccisi, e almeno 20 ancora in prigionia. Gaza è distrutta, Hamas, di fatto, anche. Eppure, nonostante tutto, Israele non sa ancora tutta la verità su quello che è successo quel giorno. Se tutti, di fatto, conoscono la dinamica di quello che accadde, ciò che ancora non è chiaro è come sia stato possibile. Come sia stato possibile che le difese di uno dei Paesi più fortificati del mondo siano state aggirate; che l’organizzazione di un piano del genere sia sfuggita alle maglie dei servizi israeliani, in assoluto i più efficienti del mondo; com’è è possibile che, dopo una guerra di due anni, l’occupazione praticamente completa della Striscia, il numero di ostaggi trovati e liberati dalle forze israeliane sia di appena 8, mentre gli altri o sono stati scambiati con i detenuti palestinesi nell’ambito di accordi, o siano stati uccisi, o siano ancora prigionieri. Insomma, dopo il dolore, il lutto, la guerra e la violenza, quel che manca davvero in Israele è la verità su quel giorno. Il governo di Bejamin Netanyahu, in carica allora come oggi, ha infatti osteggiato la nascita di una commissione di inchiesta che cercasse responsabilità e falle nel sistema di difesa. Allo stesso modo, poi, l’esecutivo, ha anche rifiutato di assumersi la responsabilità dell’accaduto, evitando di dimettersi e, anzi, rilanciando con un gabinetto di guerra sempre più autoritario e arroccato sulle sue posizioni. Una discrasia, quella tra la velocità di azione verso i nemici di Hamas e l’inerzia nella ricerca di negligenze interne, che con il tempo ha lacerato la credibilità del governo, all’interno di Israele e fuori. E, oggi, a due anni da quegli attentati e a due anni dall’inizio della guerra, quel che scuote Israele è tanto il lutto quanto la rabbia. “La guerra continua senza scopo da due anni - scrive Haaretz, il giornale della sinistra israeliana, in un durissimo editoriale - Gli ostaggi sono stati abbandonati. Israele è sprofondato in un isolamento diplomatico, economico e morale. Le mani del governo sono sporche del sangue di decine di migliaia di abitanti di Gaza. Gli israeliani hanno paura di viaggiare all'estero. Il Paese, le sue istituzioni e il suo tessuto sociale sono in uno stadio avanzato di disintegrazione”. Persino il Times of Israel, giornale molto più moderato, è sulla stessa linea e anzi, rilancia definendo la leadership di Netanyahu, come quella di “un dittatore emergente, cieco, ebbro di potere, privo di responsabilità, il peggior leader che il popolo ebraico abbia mai sopportato dalla distruzione del Secondo Tempio, duemila anni fa”. Una rabbia, quella degli israeliani, frutto sia del fatto che due anni di guerra non abbiano condotto alla “vittoria totale” promessa del premier quanto del fatto che Hamas abbia potuto portare a termine un piano che, probabilmente, ha richiesto anni di preparazione. Il 2 dicembre del 2023, a soli due mesi dagli attentanti, il New York Times pubblicava un articolo dal titolo “Israele conosceva il piano di attacco di Hamas più di un anno fa” secondo cui documenti, e-mail e interviste dimostrano che “i funzionari israeliani hanno ottenuto il piano di battaglia di Hamas per l'attacco terroristico del 7 ottobre più di un anno prima che accadesse”. Il documento di circa 40 pagine, che le autorità israeliane chiamarono in codice “Muro di Gerico”, descriveva, punto per punto, il tipo di invasione devastante poi messa a segno nell’ottobre di due anni fa. Ma i funzionari militari e dell'intelligence liquidarono il piano come ambizioso, ritenendolo troppo difficile da realizzare per Hamas. Lo scorso febbraio, l’esercito di Israele ha pubblicato un report, nel quale si ammettono gravi falle e soprattutto l’aver sottovalutato gli avvisi dell’intelligence rispetto alle attività di Hamas. Dopo la pubblicazione di quel rapporto il capo di stato maggiore dell'IDF, il tenente generale Herzi Halevi, ha dichiarato di assumersi la piena responsabilità dei fallimenti e si è dimesso: "Mi assumo la mia responsabilità. È mia. Ero il comandante dell'esercito il 7 ottobre e ho la mia responsabilità". Come lui, anche altri, tra i vertici militari del Paese si sono dimessi. Ma nessuno si è ancora sobbarcato della responsabilità politica di quanto accadde. Certo non Benjamin Netanyahu, che ha sempre tergiversato e per cui qualunque discussione politica rispetto ai fatti del 7 ottobre è da rimandarsi a dopo la guerra. Ora però, se le cose a Sharm el Sheik dovessero andare come previsto, la guerra finirà. E a quel punto, in Israele, occorrerà iniziare a discutere di cosa è stato fatto e cosa no dal 7 ottobre in poi. E soprattutto di quel che è stato fatto, o non fatto, prima di allora.

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Luciana Grosso