Lo scrittore palestinese Atef Abu Saif: “Gaza non ha bisogno di occupazioni straniere”

Atef Abu Saif stava nuotando a Gaza all’alba del 7 ottobre 2023 sullo sfondo della spiaggia di Beit Lahia, mentre si consumavano gli attentati di Hamas e si apriva un nuovo tragico capitolo del conflitto settantennale. Nella Striscia, sotto le bombe, ha trascorso i primi mesi dell’offensiva israeliana, raccontando l’orrore in un diario, edito in Italia da Fuoriscena: un lento e doloroso stillicidio di morti di familiari, amici, conoscenti. Atef Abu Saif ha messo a servizio la sua penna per tenere traccia della distruzione e narrare luoghi che oggi non esistono più, fotografati nell’attimo in cui le mura diventano macerie. Nelle librerie italiane grazie alla casa editrice Polidoro arriva anche “Vita appesa”, un romanzo con cui nel 2015 ha intrecciato tragedia privata e destino collettivo. Atef Abu Saif, nato nel 1973 nel campo profughi di Jabalia, si oppone agli eventi esercitando la sua missione: scrivere per tenere viva la memoria, perché “si combatte sulla morte insistendo sulla vita. E noi scrittori diamo vita alle cose attraverso la nostra scrittura”. Già ministro della Cultura dell’Autorità nazionale palestinese e portavoce di Fatah, Atef Abu Saif a causa della sue posizioni anti-Hamas è stato più volte incarcerato nella Striscia. Ora vive a Milano. Lo incontriamo a Ferrara al Festival di Internazionale proprio nelle ore in cui si diffonde la notizie dell’"ok" di Hamas al Piano Trump e la richiesta di negoziati. Cosa salva del Piano Trump? C’è solo una cosa buona nel Piano Trump: la fine della guerra. A me non interessa altro, non sto neanche a discutere i dettagli. Perché voglio che questa guerra finisca, ma, ricordate, nessuno potrà imporre nulla ai palestinesi. Non possono forzarci ad essere uno Stato separato rispetto alla Cisgiordania, né possono obbligarci a diventare una regione satellite degli Usa o parte del Commonwealth britannico, di cui non siamo mai stati parte del resto. Gaza non ha bisogno di governanti stranieri. Questi piani e queste soluzioni sembrano una nuova occupazione. Mi sembra solo business. Quando ho sentito il nome di Tony Blair ho pensato al fatto che, dal mio punto di vista, è un uomo d’affari, ma il nostro Paese non è business e non è in vendita. Cosa le fa più paura? Ad amministrare Gaza dovrebbe esserci un'entità composta da soli palestinesi. Certamente non avrei problemi ad accettare l’assistenza di qualche nazione soprattutto sul fronte militare e della sicurezza, ma le decisioni dovrebbero spettare ai palestinesi. Il Piano Trump porterebbe a una separazione tra Gaza e la Cisgiordania, mentre esiste solo un destino comune: dividerle significa aderire alla visione del ministro israeliano estremista Ben Gvir e questo non è realizzare il sogno dei palestinesi. Il minimo accettabile per noi è il 20% della nostra terra, quindi Gaza e Cisgiordania. La Cisgiordania si trova in una posizione sempre più complicata, dagli Accordi di Oslo in poi. La Cisgiordania è sotto attacco. È da sempre sotto attacco. Anche se l'attenzione è rivolta a Gaza, c’è un’altra guerra parallela contro i palestinesi in Cisgiordania e contro i loro luoghi. Ogni giorno nella West Bank si uccidono palestinesi, si demoliscono case. Gaza è una grande prigione, ma ogni città della Cisgiordania è come una cella, ci sono 400 checkpoint. Non puoi semplicemente scrivere al tuo amico e dire "Vengo a trovarti" se vivi a Nablus e lui vive a Hebron: ci vorrebbe un'ora e mezza, come andare da Ferrara a Milano, ma non puoi farlo lì. Devi pianificare tutto con un mese di anticipo a causa dei checkpoint. E la prima cosa che fanno le persone in Cisgiordania quando si svegliano è consultare i gruppi WhatsApp. Abbiamo gruppi speciali per tenerci aggiornati sullo stato dei posti di blocco. Lei ora vive a Milano ed è immerso nel contesto italiano. Non possiamo non citare i due milioni di persone in piazza del 3 ottobre, gli scioperi, i continui cortei e la mobilitazione a cui stiamo assistendo in tutto il mondo. Ci stiamo avvicinando ai due anni dall’inizio della guerra e si è amplificata questa frustrazione generalizzata. C’è una crescente presa di coscienza del fatto che i palestinesi sono vittime del diritto internazionale e che per loro non sia valido. Penso che le manifestazioni siano molto importanti perché chi protesta prende le distanze e mostra vicinanza a chi è a Gaza, che così si sente meno solo. E inoltre, in questo modo, aumenta la pressione sui governi. Non avremmo visto dei cambiamenti a livello europeo in Uk, Francia e Spagna , se non ci fossero stati cortei a Madrid, Londra, Parigi. Ogni pressione porterà a un risultato. L’Italia non fa parte dei Paesi che hanno riconosciuto la Palestina come quelli che citava, perché allo stato attuale sarebbe “uno Stato palestinese controllato da Hamas”, stando alle parole della premier. Se parli con un palestinese a Gaza e gli dici: "Sai che l'Italia non riconosce lo Stato palestinese?", penserà che stai scherzando. Questo esperimento l'ho fatto al telefono con mio fratello a Gaza. Lui ha detto: "Ah, dai, sei pazzo?". Certo che l'Italia è con noi. E io ho risposto: "No, l'Italia non riconosce lo Stato palestinese". Perché pensano che, di fatto, l'Italia sia il Paese più vicino storicamente ai palestinesi. Peraltro il Regno Unito , che per i palestinesi è considerato tra i principali responsabili della nostra situazione, l’ha riconosciuto specificando che non fosse un riconoscimento a Hamas. Avrebbe potuto farlo anche l'Italia. Aggiungiamo anche che riconoscere lo Stato palestinese continuando a vendere armi in Israele non ha senso. La verità è che Israele gode di un trattamento preferenziale con l'UE, di cui l'Italia fa parte. Il fattore Hamas, che ha in mano la Striscia dal 2006, dopo la vittoria alle elezioni, rende tutto più complicato . Non si possono associare i palestinesi con Hamas. Perché la gente non è con Hamas. Dire: "Non riconosceremo lo Stato se Hamas ne fa parte" equivale a giustificare l'uccisione dei palestinesi da parte di Israele. Quindi essere parte di questo genocidio. A innescare le grandi manifestazioni degli ultimi giorni è stato lo stop di Israele alla Global Sumud Flotilla che è stata un’ulteriore scintilla. In Italia il governo ha giudicato come irresponsabile e inutile questa iniziativa. Lei cosa ne pensa? Penso che la flotilla sia importante perché ha ricordato a tutti i media del mondo quello che molti si erano dimenticati, ovvero che Israele impone un blocco navale che va avanti da decenni e quindi la flotilla ci ha messo davanti agli occhi un’amara verità e un enerome paradosso: Gaza è sulla costa, eppure il mare sfortunatamente non è una finestra sul mondo esterno ma è un’altra recinzione. E anche se non ce l’hanno fatta, sono stati molto coraggiosi a tentare di rompere il blocco e dobbiamo provare ancora e ancora. Immaginate se lo facessero mille barche. Difficile parlare delle prospettive politiche quando ci sono ancora civili che muoiono. Ma come vede il futuro “politico” della Palestina, posto che si è già espresso sulle interferenze straniere. Oltre al totale ritiro israeliano da Gaza e al peacekeeping internazionale al confine, penso sia fondamentale potenziare l’Autorità palestinese per il controllo di Gaza. È molto semplice. La questione viene sempre posta dando per scontato che i palestinesi non siano qualificati per gestirsi e come se l'ANP non fosse capace. Non è vero. Questo è un modo di pensare tipicamente israelo-americano, britannico, europeo e occidentale. Non abbiamo certo bisogno di Tony Blair. Perché dovreste decidere voi di che tipo di persone abbiamo bisogno? Perché non ponete questa domanda in Israele? O non la ponete a Cipro e a Roma? Perché i palestinesi devono sempre essere messi in dubbio? Penso che in Cisgiordania abbiamo un sistema politico che funziona. E Hamas non fa parte di questo sistema politico. Ma sfortunatamente la comunità internazionale cerca persone accettate da Israele. E non si preoccupa di estremisti come i ministri israeliani Smotrich e Ben Gvir. Lei ha perso molti familiari e persone a lei vicine dal 7 ottobre 2023 e continua a essere in contatto più possibile con chi è rimasto. Come stanno vivendo questa fase? A Gaza si vive la vita giorno per giorno. Chi si sveglia è felice di non essere morto. Poi ricomincia la paura e c’è un nuovo obiettivo: rimanere in vita fino a notte fonda. Nel mentre si devono cercare cibo, acqua, vestiti. La vita in quel pezzo del mondo è un viaggio per la sopravvivenza. Immaginatevi di svegliarvi come mio fratello Ibrahim pensando a come procurarsi da mangiare. Nel suo diario parla non solo delle persone ma anche dei luoghi, soprattutto di quelli di cultura annientati e distrutti, per sottolineare quello che definisce un “genocidio anche culturale”. Che responsabilità in più sente come scrittore oltre che come palestinese? Una delle missioni principali della scrittura è mantenere viva la memoria. È ciò che faccio nei miei romanzi, nei miei libri e nei miei scritti. Credo che per combattere la morte si debba insistere sulla vita. E noi scrittori diamo vita alle cose attraverso la parole. C’è un aspetto che sottovalutiamo: la prossima generazione non potrà conoscere la Gaza che ho conosciuto io, perché non è rimasto più quasi nulla. I miei romanzi aiuteranno i giovani a ricostruire e a orientarsi in un paesaggio desolato. Una delle principali guerre che Israele sta scatenando contro il nostro popolo è la guerra contro la nostra memoria. Per questo hanno demolito teatri, cinema, archivi, 85 biblioteche, 12 musei, 57 gallerie d'arte, 75 siti archeologici. Per non parlare dei tantissimi autori e poeti che sono stati uccisi, tra cui Saleem Al-Naffar, il grande poeta di Gaza morto sotto un bomabrdamento nel dicembre del 2023.

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Ludovica Passeri