Trump-Netanyahu, il piano per la pace odora ancora di guerra

Davanti ai giornalisti la tentazione di dare l'accordo per fatto è forte: il Presidente americano, wannabe premio Nobel, è riuscito a resisterle solo a tratti. La conferenza stampa congiunta con Benjamin Netanyahu si è trasformata in un semplice incontro con i reporter, visto che nessuno dei due leader ha accettato di rispondere alle domande. Era successo anche con Putin in Alaska, e non era stato un buon segno. Le iperboli trumpiane non sono mancate. Il Presidente ha detto, per esempio, che "questo è potenzialmente uno dei giorni più importanti nella storia della civiltà". Potenzialmente, appunto, perché in realtà il piano in venti punti si regge su una gamba sola. Manca, per ora, il via libera di Hamas, ed è evidente come la bozza - giusto o sbagliato che sia - penda dalla parte dello stato ebraico. Il piano prevede il disarmo di Hamas, che dovrebbe sostanzialmente abbandonare la Striscia, distruggere tutte le sue infrastrutture e rinunciare ad ogni velleità di partecipazione al futuro governo palestinese. Trump si dice fiducioso che i miliziani accetteranno, e il suo ottimismo deriva probabilmente da tre elementi: primo, il sostanziale sì degli Stati arabi e musulmani al piano; secondo, le difficili condizioni in cui versa Hamas dopo i duri colpi subiti negli ultimi mesi; terzo, i buoni uffici del Qatar, che una volta incassate le scuse di Israele per l'attacco del 9 settembre si è preso l'incarico di fare pressione sull'organizzazione terroristica. Hamas è sempre più isolata, ma cosa potrebbe mai offrire Doha di così prezioso da spingerla ad accettare un accordo che prevede una sua capitolazione pressoché totale? Vedremo. I venti punti della Casa Bianca delineano un percorso particolarmente tassante per Hamas, ma anche Netanyahu è costretto a correre qualche rischio: il riferimento a un futuro Stato palestinese è vaghissimo, pressoché inesistente, ma forse sufficiente a scatenare la rabbia dell'estrema destra israeliana. Senza contare l'esasperazione dei familiari degli ostaggi e la reazione che potrebbero avere di fronte a un eventuale naufragio delle trattative. Vista la situazione, però, il premier ha molto più da guadagnare che non da perdere: l'accordo, secondo Netanyahu, consentirebbe a Israele di raggiungere i propri obiettivi bellici, e se l'intesa non dovesse andare in porto lo stato ebraico potrebbe addossare la responsabilità del fallimento ad Hamas, sentendosi a quel punto libero di perseguire i propri scopi con tutti i mezzi a disposizione. Washington, in questo caso, resterebbe al fianco di Netanyahu, come ha dichiarato esplicitamente Trump, chiamando il premier con il suo abituale nomignolo: "Come sai, Bibi, a quel punto avresti il nostro pieno appoggio per fare ciò che devi fare". Il piano è infarcito di punti poco chiari: si parla di una zona cuscinetto in cui i soldati israeliani potrebbero rimanere anche dopo il ritiro, ma l'estensione di questa zona e la durata della presenza militare non vengono esplicitati. I dettagli più interessanti si nascondono tra le righe. Tony Blair ottiene - come sembra abbia esplicitamente richiesto - un ruolo nel futuro governo ad interim palestinese. Sarà nel Board of Peace capitanato da Trump, e i futuri rapporti tra il Presidente e l'ex premier britannico suscitano, almeno in me, una certa curiosità. Blair, socio di Bush nell'avventura irachena, porta con sé vizi e virtù di una lunga carriera: l'esperienza maturata come inviato del Quartetto per il Medio Oriente, ma anche i contraccolpi della guerra contro Saddam e i discussi rapporti con l'Arabia Saudita. Trump, incapace di modestia , con vera immodestia dice di aver accettato l'incarico di capo del Board of Peace suo malgrado, per semplice senso del dovere e dopo ripetute richieste da parte degli alleati, convinti che senza di lui tutta l'architettura sarebbe inevitabilmente crollata. I più maliziosi sottolineano che la futura commissione si occuperebbe anche dei piani per la ricostruzione della Striscia, e notano che le potenzialità della costa gazawi non sono mai sfuggite all'immobiliarista Trump e al genero Jared Kushner, ampiamente coinvolto nella stesura del piano. La Riviera del Medio Oriente immaginata dalla Casa Bianca mesi fa viene evocata nel punto numero dieci. "Un piano di sviluppo economico firmato Trump, per ricostruire e rilanciare Gaza, sarà elaborato convocando esperti che hanno contribuito alla nascita di alcune delle fiorenti, moderne città miracolose del Medio Oriente. Numerose e ragionate proposte di investimento ed entusiasmanti idee di sviluppo sono state elaborate da gruppi internazionali ben intenzionati e saranno prese in considerazione per creare una cornice di sicurezza e governance che attragga e faciliti questi investimenti in maniera da creare posti di lavoro, opportunità e speranza per il futuro di Gaza". Dal piano originario viene esplicitamente espunta la rimozione forzata dei palestinesi. Per il resto, l'incontro di Trump con i giornalisti è stato caratterizzato dalle consuete divagazioni del Presidente: dal riconoscimento dello Stato palestinese, che "è una cosa stupida", alle critiche a Joe Biden, che continua a occupare i pensieri di Trump come fosse un amante fedifrago; fino agli attacchi all'Onu per il gobbo che non funzionava durante il discorso in Assemblea generale, un piccolo infortunio che sembra ormai destinato a entrare nel nutrito cahier de doléances trumpiano. Tutto questo nel corso di dichiarazioni alla stampa particolarmente povere di riferimenti alla popolazione palestinese, l'unica che, insieme agli ostaggi israeliani e alle loro famiglie, sopporta da quasi due anni il peso indicibile di una guerra feroce.

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Federico Leoni