Le incognite del ritorno del servizio militare obbligatorio in Serbia e Croazia

Il ministro della Difesa serbo Bratislav Gašić ha annunciato il 18 settembre che all’inizio del 2026 diventerà effettivo il ritorno del servizio militare obbligatorio e che è in corso un’opera di risistemazione delle strutture preposte ad ospitare la prima generazione di reclute. Procedure e lavori che sarebbero secondo le autorità in una fase avanzata. Un anno fa il governo conservatore di Belgrado aveva comunicato la decisione. Inizialmente previsto per settembre, l’avvio del nuovo servizio militare, dopo 14 anni di assenza, è stato ritardato e per diversi mesi il provvedimento è rimasto fuori dai radar del dibattito pubblico. Sono ancora tanti i punti di domanda - si parla per ora di 75 giorni di servizio di cui 15 di addestramento vero e proprio. Mancano, innanzitutto, diversi passaggi parlamentari che porteranno all’adozione di una legge ad hoc e restano da chiarire molti aspetti pratici - che ruolo avranno le donne? - ma le vere incognite sono di natura politica. Da quando è stata comunicata per la prima volta la decisione, lo scenario sociale è mutato. Dal primo novembre 2024, a seguito del crollo della tettoia della stazione di Novi Sad, nella regione della Vojvodina, che ha provocato la morte di 16 persone, il Paese è in subbuglio, attraversato da proteste continue contro la corruzione ed estremamente polarizzato. I leader del movimento sono i GenZ, proprio per la generazione che per prima sarebbe chiamata ad adempiere al nuovo obbligo militare. Sulla realizzabilità del progetto nei tempi ipotizzati dalle autorità ci sono, per queste ragioni, molti dubbi. L’iniziativa esaspererebbe divisioni già fortissime, mentre la piazza chiede a gran voce elezioni anticipate. A chi accusa Aleksandar Vučić, l’uomo che da oltre un decennio regge le sorti del Paese, di utilizzare l’esercito in modo politico il ministro risponde che quelle sui carri armati utilizzati per spaventare i giovani ribelli sono tutte menzogne e fanno parte di una strategia di attacco a tutte le istituzioni”. Parole pronunciate alla vigilia della parata militare dello scorso 20 settembre, una delle più grandi della storia del Paese, con cui la Serbia ha mostrato i muscoli al mondo, insistendo sul fatto che la pace si ottiene con un rafforzamento della difesa e a tal fine esibendo nuovi sistemi di armamenti e un enorme dispiegamento di uomini e mezzi che hanno sfilato nella parte moderna della capitale. Ma dentro i confini nazionali l'evento è stato vissuto dai detrattori del presidente e del partito di governo, l’SNS, come una forma di intimidazione rivolta contro l’opposizione interna. La decisione serba non arriva solo in un momento internazionale di crisi generalizzata - dallo scoppio della guerra in Ucraina, del resto, sono molti i Paesi europei che hanno rimesso al centro del dibattito la reintroduzione del servizio militare obbligatorio - ma in una fase estremamente complicata a livello regionale su più fronti - dalle minacce di secessione dalla Bosnia della Repubblica srpska all'irrisolta latente questione Kosovo, passando per i nuovi accordi militari nell'area - e per questo il ritorno del servizio militare è stato letto da molti osservatori soprattutto come un botta e risposta con la vicina Croazia, membro della Nato e dell'Ue, che aveva annunciato per prima la stessa misura, anticipando così la Serbia. Il deterioramento dei rapporti tra i due Paesi e i fantasmi della guerra degli anni Novanta sono più che una semplice cornice, ma un contesto da tenere bene in considerazione. E se in Serbia questa misura è destinata ad accendere gli animi, anche in Croazia moltI gruppi promettono battaglia. In prima linea l’organizzazione giovanile Mreže Mladih che accusa il governo di destra di non aver coinvolto i diretti interessati nel processo decisionale. Ma sono scese in campo il 27 settembre nella piazza centrale della capitale anche realtà come il Centro per l'educazione economica che ritiene che la reintroduzione non sia né costituzionale né sostenibile. Anche le autorità croate, come quelle serbe, prevedono, almeno in linea teorica, l’avvio per l'inizio del nuovo anno, con una coincidenza temporale che non passa certo inosservata. Se si allarga lo sguardo all'intera area ex-jugoslava, si prende atto che il tema delle opportunità di un ritorno della coscrizione obbligatoria sia stato sollevato anche in altri Paesi. Se per le autorità slovene è prematuro e affrettato parlarne, c’è, in ogni caso, un confronto in corso e le nuove strategie di difesa della Slovenia potrebbero andare in questa direzione. Il primo ministro del Kosovo, Albin Kurti, ventila da anni questa prospettiva senza tuttavia aver ancora compiuto passi concreti. Più in generale l'aumento di investimenti sulla difesa mette d’accordo tutti: dal Montenegro alla Macedonia del Nord. Tra progetti di reintroduzione della leva e rafforzamento degli eserciti, si esacerbano le tensioni esistenti e ogni decisione presa dai singoli Paesi sembrerebbe esposta a un poco rassicurante effetto domino.

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Ludovica Passeri