Come i partiti americani usano messaggi spam per ottenere donazioni

Negli ultimi anni, nel panorama del fundraising politico statunitense, si è consolidata una pratica piuttosto controversa: gli elettori, in particolare quelli più anziani, vengono sommersi da messaggi dal tono allarmistico, ingannevole o emotivamente manipolatorio, con l’obiettivo di spingerli a effettuare donazioni in denaro al proprio partito di riferimento. Sul tema è intervenuto Adam Bonica, politologo e professore alla Stanford University, che ha condotto uno studio approfondito mettendo in luce le implicazioni etiche problematiche del fenomeno. Sebbene queste pratiche siano ampiamente diffuse tanto nel Partito Repubblicano quanto in quello Democratico, Bonica ha scelto di concentrarsi su quest’ultimo, sia per spronarlo – da sostenitore – ad abbandonarle, sia per evidenziare l’ipocrisia di un partito che si proclama difensore dei consumatori ma ricorre alle stesse tecniche ingannevoli che in altri contesti condanna. Anche perché, fiducia e credibilità sono elementi fondamentali per il successo di una forza politica, ma queste pratiche di fundraising manipolative rischiano seriamente di minarli. Messaggi shock e ingannevoli Bonica ha individuato quattro principali tipologie di comunicazioni invasive. La prima consiste in messaggi dal tono allarmistico, spesso scritti interamente o parzialmente in maiuscolo e con uno stile “emergenziale”: il loro obiettivo non è tanto informare, quanto sorprendere o spaventare l’elettore per indurlo a donare. Poi ci sono i testi che mettono in scena una presunta sofferenza del partito o del candidato , i quali, facendo leva anche sui precedenti messaggi allarmistici, puntano a colpevolizzare chi li riceve per spingerlo a contribuire. Generalmente, queste pratiche in particolare mirano a soggetti vulnerabili come gli anziani. La terza tipologia include messaggi basati sul cosiddetto “matching”, ovvero la promessa che a una donazione del destinatario corrisponda un contributo due, tre o più volte superiore da parte di un ipotetico grande finanziatore. In questo caso si tratta a tutti gli effetti di marketing ingannevole e ai limiti della legalità: nella maggior parte dei casi, infatti, questi donatori “moltiplicatori” non esistono e, anche laddove esistessero, le loro donazioni rischierebbero di violare le norme sul finanziamento ai partiti. La quarta è definita “fundraising performativo”, in quanto sfrutta qualsiasi dichiarazione o atto pubblico degno di nota – in positivo o in negativo – come pretesto per sollecitare una donazione. Ad esempio, se un avversario insulta il candidato o il partito da cui proviene la richiesta, la donazione viene presentata come uno strumento necessario per difendersi dall’attacco. Secondo l’analisi di Bonica, queste tecniche non sono usate solo da consulenti esterni, ma sono state ormai interiorizzate e normalizzate da dirigenti e comitati politici, fino a diventare un pilastro del fundraising del Partito Democratico. Il risultato è una strategia che privilegia i ricavi immediati a scapito della reputazione a lungo termine e della tutela della base elettorale, contribuendo con ogni probabilità alla crisi di consenso che oggi attraversa il Partito Democratico.

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Gianluca De Feo