Proteste in Serbia, il politologo: “Vučić sta diventando come Lukašenko”

È una storia di cui conosciamo l’incipit ma con un finale ancora da scrivere. Il primo novembre scorso una tettoia della stazione di Novi Sad, seconda città della Serbia, crolla, provocando la morte di 16 persone . Un tragedia considerata da molti “evitabile” ed emblematica di un sistema di potere costruito sulla corruzione e sul dominio dell’interesse privato su quello pubblico. È così che il dissenso nei confronti di Aleksandar Vučić, l’uomo che regge le sorti del Paese - oggi come presidente e prima come premier - da oltre un decennio, è esploso. A convogliarlo migliaia di ventenni, soprattutto universitari, che hanno preso la testa del movimento di protesta studentesco e cittadino, adottando il metodo nonviolento e promuovendo forme di democrazia diretta. Sebbene si siano verificati episodi repressivi già a poche settimane dal crollo della pensilina e dall’inizio di luglio gli arresti siano aumentati esponenzialmente, è dal 13 agosto che le tensioni sono deflagrate e gli scontri saliti di livello in varie città: la capitale Belgrado, Valjevo, la già citata Novi Sad. Utilizzo di gas lacrimogeni, manganellate, violenze documentate dagli smartphone dei presenti, gruppi di fedelissimi del presidente schierati, e dall'altra parte i settori più facinorosi del movimento di protesta, che è oramai vasto e cumulativo di tanti anime e orientamenti diversi. ”Abbiamo assistito a un cambio repentino di atteggiamento da parte delle autorità serbe, in particolare da parte della polizia. Mercoledì 14 agosto durante le manifestazioni, la repressione però è divampata senza validi motivi” spiega il politologo Viktor Stamenković. Per capire davvero le ragioni di quello che sta succedendo e che rimbalza sui social attraverso i tanti canali del movimento anti-Vučić, però, dobbiamo fare un passo indietro: la richiesta di elezioni anticipate che incombe, il ruolo che stanno avendo i sondaggi sempre più foschi per il presidente, la prospettiva che a settembre ricominci una nuova stagione di “blocchi” stradali e di occupazioni delle facoltà ancora più intensa di quella degli ultimi mesi. Alla vigilia di Ferragosto, nel secondo giorno di quella che molte testate serbe di opposizione hanno definito “una guerra civile cercata dall’alto”, le sedi dell’SNS, il partito di governo, sono state assaltate a Novi Sad da gruppi di oppositori radicalizzati. Immagini che portano a interrogarsi su quale sia il futuro di una leadership conservatrice ancora salda da un punto di vista esterno ma che entro i confini nazionali appare in enorme difficoltà. “La situazione è di difficile lettura. È chiaro, però, che il presidente è consapevole che non si possa più tornare indietro, qualcosa si è rotto ed è irrecuperabile. I vertici stanno agendo in un disperato tentativo di difendere la loro roccaforte. Sanno di non avere più la maggioranza. E questa consapevolezza giustifica anche l’irrazionalità con cui stanno agendo. Per ogni arresto il presidente perde voti, perché gli arrestati hanno genitori, sorelle, nonni, e si sta così sta scavando una fossa”, spiega Stamenković. Il Ministro degli Interni Ivica Dacić ha parlato all’indomani del primo giorno di scontri di 47 arresti con più di cento feriti, tra cui 80 civili e 27 agenti di polizia. Nei giorni successivi si sono verificate dinamiche simili. Di che numeri parliamo ora soprattutto sul fronte arresti? Ci sono alcuni dati ufficiali, ma potrebbero essere lontani dalla realtà delle cose, perché si sono verificati anche arresti illegali: ci sono alcune unità che non sono autorizzate ad arrestare le persone e che stanno comunque eseguendo arresti in modo massiccio. Ed è anche difficile capire cosa succeda nelle celle e nei luoghi in cui vengono portati. Arrivano testimonianze di assoluta gravità. I media serbi di opposizione parlano di paramilitari governativi e dell'unità Cobra in azione. Sono risorse che oggi sono impiegate più che nei mesi precedenti? Dobbiamo partire da un presupposto. L’unità Cobra è un'unità militare speciale, ma è di dominio pubblico il fatto che quella struttura sia utilizzata per dare lavoro ai membri del partito di governo, l’SNS. Parliamo quindi di uomini vicini al presidente. Perché proprio ora è entrata in scena così platealmente l’unità Cobra? Ci sono molte voci non confermate su questo, ma verosimili: alcuni settori della polizia solidarizzerebbero con i manifestanti e si starebbero rifiutando di attaccare le persone per strada. Quindi le autorità si sarebbero riorganizzate con una struttura diversa. C’è poi un altro tema: negli ultimi giorni stanno montando i dubbi sull’identità di molti presunti poliziotti: persone che contrastano i manifestanti a volte con delle uniformi, ma senza identificativi. Penso che la Serbia si stia avvicinando alla Bielorussia per il tipo di repressione in atto. Questa è la nuova quotidianità serba. Vučić come Lukašenko? È quello che stiamo vedendo negli ultimi giorni. La situazione attuale della Serbia è fondamentalmente simile a quella in Bielorussia, che a partire dal 2020 è stata attraversata da una grande stagione di proteste e da una fortissima repressione. A differenza della Bielorussia la Serbia ha un’esperienza democratica importante alle spalle, guardando agli anni che vanno dalla caduta di Milošević all’inizio dell’era Vučić, ma penso che chi è al potere stia cercando di creare un regime di tipo bielorusso. Bisogna capire se avranno la capacità di farlo. Un’altra differenza però con la Bielorussia e la Georgia è che nel caso della Serbia non c’è stata alcuna presa di posizione netta da parte dell’Ue. Come vede il futuro dei rapporti con l’Europa alla luce di tutto questo e di questa escalation che non ha prodotto particolari reazioni? Il processo di integrazione è affossato da molto tempo, ma nessuno lo dirà mai ufficialmente. Le autorità dell'Ue sanno benissimo che la Serbia con questo tipo di governo e presidenza non farà mai parte dell'Unione europea, ma c’è una sorta di accordo non ufficiale, un tacito patto, che prevede di non parlarne, di non denunciare. Sul tavolo ci sono dossier importanti per l’Ue come lo sfruttamento delle miniere di litio, progetti che raccolgono molto dissenso civico. Da una prospettiva europea è meglio tenersi Vučić, perché è un presidente che consente quella che viene chiamata “stabilocracy”, un regime considerato stabile e prevedibile e che per questo si guadagna l’approvazione esterna. Nei Balcani quello delle stabilocracy è un tema: vale anche per il Montenegro. L’Ue pensa che Vučić possa piegarsi ai propri interessi. Dei sondaggi condotti ad aprile fotografavano già perfettamente una sorta di disamoramento da parte di chi un tempo ha creduto fortemente al futuro europeo della Serbia. E in piazza, lo ricordiamo, non ci sono mai state bandiere europee, un’altra differenza con altri teatri di protesta internazionali, perché questo processo di disamoramento è in corso da anni. La maggior parte delle persone in piazza sono portatrici di valori europeisti, ma ora sono molto deluse dalla risposta dell'UE, anzi dalla non-risposta dell’Ue. E sappiamo il perché di questo silenzio. L’interesse a portare avanti il dialogo con Vučić vince su tutto. Sulla Georgia e la Bielorussia l’atteggiamento dell’Europa è stato molto diverso. Nel frattempo c’è una Russia che invece rilascia dichiarazioni nettissime per bocca del ministro degli Esteri Lavrov contro la “rivoluzione colorata” che sarebbe in corso in Serbia, a sostegno di Vučić. Sui giornali serbi negli ultimi giorni si parla di spettro della guerra civile, come strategia dei vertici per generare caos. Pensa che sia uno scenario possibile? No, credo che sia una definizione troppo forte. Direi che probabilmente allo stato fattuale si tratta di una rivolta nazionale, perché per una guerra civile servono due parti uguali, entrambe pronte a usare le armi, e credo che questo non sia il caso della Serbia in questo momento. Dalla parte di Vučić negli ultimi giorni è sceso in piazza un piccolo gruppo di persone, mentre dall’altra parte c’è una stragrande maggioranza di gente comune che esprime dissenso in modo non violento, ma che viene messa ora alle strette e si sta trovando sempre più in una situazione in cui è necessario difendersi e contrattaccare. Il presidente con le sue esternazioni, però, utilizza una retorica da guerra civile. Oggi ha parlato di una “gang che minaccia il Paese”, in passato ha definito i manifestanti “terroristi’. Ha parlato anche spesso di “lealisti”, uomini che lo sostengono e sui cui potrà contare. Chi sono questi uomini del presidente? Non ce ne sono molti di questi fedelissimi di cui parla, come anticipavo. Credo che questo tipo di narrazione venga usata perché vuole consolidare la sua base elettorale. Gli elettori del Partito Progressista Serbo ora hanno molta paura. Sono per lo più anziani. Fanno parte di quel gruppo che in gergo tecnico si chiama dei “perdenti della transizione”. Parliamo di persone che hanno perso il lavoro all'inizio di questo secolo, nel periodo in cui c’è stata la transizione democratica, hanno iniziato a sostenere il Partito Progressista Serbo perché particolarmente vulnerabili in quella fase. La maggior parte di loro ha 50 anni o anche più, mentre la stragrande maggioranza di chi protesta è giovane, alcuni addirittura studenti delle scuole superiori, il futuro del Paese. Parlando di consenso, a luglio è stato diffuso da Sprint Insights un sondaggio che è stato criticato con toni durissimi dai vertici come propaganda antigovernativa. Un sondaggio che mostra che il movimento di protesta alle urne sbaraglierebbe il presidente. Che ruolo ha avuto questo report? È stato il primo sondaggio pubblico che ha mostrato ciò che tutti sappiamo ma che fino al mese scorso era solo una percezione, ovvero che questo governo non ha più la maggioranza. La maggior parte delle persone vuole la caduta di Vučić, ed è la prima volta negli ultimi 15 anni che ci troviamo in questa situazione. Da maggio gli studenti chiedono a gran voce elezioni anticipate dopo una prima fase di assestamento in cui questa richiesta non era stata formulata. Quanto sono lontane le elezioni? Beh, possiamo parlare di elezioni con una premessa: non saranno democratiche finché resterà al potere l’attuale leadership, proprio come le ultime tornate inficiate dalle manipolazioni delle autorità. Ma ciò che è interessante è che il già citato sondaggio di Sprint Insights afferma che anche in condizioni di brogli e pressioni da parte dei vertici, gli elettori d’opposizione potrebbero comunque prevalere, perché hanno un bel margine. Aleksandar Vučić dovrebbe fare di tutto per evitare il voto, ma allo stesso tempo con una perdita così consistente di consensi potrebbe valutare anche di convocarle per fermare la discesa e perché la sua Serbia assomiglia sempre di più al Libano tra scontri ed esplosioni e non può permettersi di trascinare questa situazione per un altro anno. Come potrebbe uscire da questa impasse? Tutto si gioca sulle elezioni parlamentari ma le difficoltà per Vučić sono ancora più grandi a livello di elezioni presidenziali, perché non ha la possibilità di ricandidarsi. Secondo la Costituzione serba, ogni cittadino ha il diritto di essere presidente per un massimo di due mandati. Potrebbe cambiare la Costituzione, un compito molto rischioso. La seconda exit strategy potrebbe essere nominare un'altra persona con una buona reputazione per concorrere alle prossime presidenziali, un fantoccio che gli permetterebbe di tenere le redini. Non sono sicuro che sia in grado di farlo perché non c'è davvero nessun altro nel Partito progressista serbo, tranne lui, che possa vincere al primo turno. Se si va al secondo turno, sarebbe in ogni caso una sorta di referendum in cui, stando ai sondaggi, perderebbe. È difficile fare delle previsioni, non solo perché il partito è molto chiuso e non lascia trapelare nulla ma perché tutto dipende dalla mente e dalla volontà di una persona. Ne parla come di una monarchia. Sì, fondamentalmente, è una monarchia “eletta”. Ci sono molte incognite ma quello che è abbastanza prevedibile è che a settembre ci sarà un'esplosione ancora più grande di dissenso, che ora si sta solo preparando. Perché le città più grandi ad agosto sono vuote, ma a settembre ci sarà una nuova generazione che inizierà l'università e le scuole superiori. Ricomincerà anche il braccio di ferro tra istituti di istruzione e studenti, un nuovo autunno di “blocchi”.

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Ludovica Passeri