Il lavoro domestico e di cura entra nel Pil: la svolta del Bangladesh

Il governo ad interim del Bangladesh ha annunciato che a partire dal biennio 2025-2026 il lavoro domestico e di cura non retribuito verrà incluso nel calcolo del Pil. Una scelta storica che punta a dare dignità economica a un’attività che, secondo stime dell'International Labour Organization , in alcuni Paesi vale fino al 40% del Prodotto Interno Lordo: in Bangladesh, secondo gli ultimi dati disponibili, la cifra arriva al 20%, di cui la maggior parte pesa sulle spalle delle popolazione femminile. La decisione arriva dopo circa 15 anni di impegno da parte delle organizzazioni per i diritti umani presenti nel Paese, tra cui ActionAid Bangladesh e la Manusher Jonno Foundation. Un quinto del Pil nazionale Il primo passo per calcolare il valore economico del lavoro domestico e di cura non retribuito è comprendere quanto tempo la popolazione dedica a queste attività. Secondo la ricerca svolta nel 2021 dal Bangladesh Bureau of Statistics sull’impiego del tempo da parte della popolazione, nel Paese le donne svolgono la stragrande maggioranza di questo lavoro invisibile: in media, ogni anno dedicano oltre 1.200 ore alla preparazione dei pasti, 420 ore alla cura dei figli e 237 ore alle pulizie domestiche. Gli uomini, invece, partecipano in misura nettamente inferiore: appena 62 ore all’anno per la spesa domestica, 58 ore per l’assistenza ai figli e 44 ore per il trasporto dei familiari. In termini di tempo, ciò che gli uomini dedicano a cucina e pulizie rappresenta appena un sesto del contributo femminile. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Per stimare il valore economico del lavoro domestico e di cura non retribuito, il tempo dedicato a queste attività viene moltiplicato per la retribuzione oraria di un’eventuale figura sostitutiva e per il numero di persone di età pari o superiore ai 15 anni. Sulla base di questo metodo, l’Asian Development Bank ha calcolato che in Bangladesh queste attività valgono circa un quinto del Pil nazionale. In parallelo al lavoro statistico, però, si è anche sviluppato un paziente e determinato lavoro politico e culturale. Dal 2013, ActionAid Bangladesh è in prima linea nel tentativo di far riconoscere, ridurre e redistribuire il lavoro di cura non retribuito. Uno degli strumenti chiave è stato il Time Diary: donne in tutto il Paese sono state invitate a registrare, ora per ora, le attività svolte durante una giornata tipo. Il risultato è stato un quadro chiaro e documentato del loro carico quotidiano, utile non solo a livello statistico ma anche personale: per molte, vedere nero su bianco il tempo impiegato tra casa, figli e anziani ha dato un nome alla stanchezza cronica, al senso di invisibilità, all’impossibilità di accedere a un lavoro retribuito o a un percorso formativo. A partire da questi dati, ActionAid ha avviato campagne e iniziative di sensibilizzazione, come il Men’s Cooking Festival, in cui gli uomini sono stati invitati a cucinare in pubblico, di fronte alle loro comunità. Durante la pandemia, uno studio condotto dall’ONG ha mostrato che il carico di lavoro domestico non retribuito nel Paese è aumentato del 128% Eppure, questo lavoro è rimasto largamente ignorato nelle strategie di risposta all’emergenza sanitaria e nei bilanci pubblici. Da qui, la pressione costante sul governo per un cambiamento sistemico. Se non visualizzi il grafico, clicca qui “Ora nelle nostre campagne possiamo attribuire un valore remunerativo a ogni singolo compito svolto da una donna, dimostrando i costi economici che si dovrebbero sostenere in sua assenza o se decidesse di non svolgerli”, ha spiegato in un’intervista Farah Kabir, direttrice di ActionAid Bangladesh. La storia del movimento per il riconoscimento economico del lavoro domestico L’idea che il lavoro domestico e di cura abbia un valore economico reale non è nuova. A dirlo, più di un secolo fa, era già la sociologa e scrittrice americana Charlotte Perkins Gilman, che nel suo libro Women and Economics del 1898 denunciava come la dipendenza economica delle donne dagli uomini, dovuta al lavoro domestico non retribuito, fosse uno degli ostacoli principali alla loro libertà. A raccogliere e sistematizzare questa intuizione, nel 1934, fu successivamente l’economista canadese Margaret Reid, con Economics of Household Production, considerata una delle prime analisi economiche strutturate sul lavoro domestico. Pochi anni dopo, nel 1941, la storica dell'economia Phyllis Deane venne incaricata di applicare di calcolare il Pil alcune colonie britanniche. Lavorando sul campo nell’attuale Malawi e Zambia, Deane si rese conto dell’errore strutturale: escludere il lavoro domestico non retribuito dai calcoli nazionali significava cancellare una parte enorme dell’economia, soprattutto nelle aree rurali. Per questo passò mesi a raccogliere dati nei villaggi, cercando di includere nel Pil locale le attività più faticose e sottovalutate: la sua intuizione, tuttavia, venne ignorata. A riprendere quel filo, negli anni Settanta, fu una rete di attiviste internazionali. La campagna “Wages for Housework”, lanciata nel 1972 da Mariarosa Dalla Costa, Silvia Federici, Brigitte Galtier e Selma James, chiedeva che il lavoro domestico e di cura fosse riconosciuto e retribuito. In Italia, la campagna arrivò nel 1974, con gruppi locali riuniti sotto lo slogan “Salario al lavoro domestico”. Una richiesta radicale, che metteva in discussione i confini stessi tra lavoro produttivo e riproduttivo e che ancora oggi risuona nei dibattiti sulla giustizia economica e di genere. Se non visualizzi il grafico, clicca qui Secondo il report “Unpaid Care Work and the Labour Market” dell’ILO, oggi le donne svolgono in media oltre il 75% del totale delle ore dedicate al lavoro domestico e di cura in tutto il mondo. In media, il rapporto è di 3,2 a 1: per ogni tre ore di lavoro non retribuito femminile, gli uomini ne svolgono una. Inoltre, nessun Paese raggiunge davvero la soglia della parità, anche se Svezia, Norvegia e Danimarca si avvicinano, seguite da Canada, Finlandia ed Estonia. All’estremo opposto, in Paesi come Mali, Cambogia, Pakistan e India, gli uomini contribuiscono per meno del 10% alle attività domestiche e di cura. In un’intervista al magazine ingenere Nancy Folbre, professoressa emerita di Economia all'Università del Massachusetts Amherst, ha ricordato che molti Paesi, tra cui Stati Uniti e Francia, forniscono oggi delle “stime del valore nazionale del lavoro non retribuito attraverso i cosiddetti “conti satellite”, che possono essere utilizzati per integrare la misurazione convenzionale del Pil. Tuttavia, queste stime sono espresse in un linguaggio altamente tecnico, raramente ottengono visibilità, e vengono perlopiù ignorate da chi decide a livello di politiche”. Folbre ha anche sottolineato che l'Italia dispone di un'indagine nazionale sull'impiego del tempo e quindi utilizzare questi dati per fare una stima del valore minimo del lavoro domestico non retribuito non dovrebbe essere difficile: la parte più difficile è, invece, far entrare questi temi nel dibattito economico mainstream.

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Roberta Cavaglià