Quali sarebbero i Paesi più colpiti da una chiusura dello Stretto di Hormuz?

Ogni giorno circa un quinto della produzione mondiale di petrolio passa attraverso lo Stretto di Hormuz, il sottile corso d’acqua situato tra il Golfo dell’Oman e il Golfo Persico che affaccia sulla costa meridionale dell’Iran. Con una lunghezza di 33 km e una larghezza di 3, lo stretto è fondamentale per le rotte commerciali di tutto il mondo. Ogni volta che le tensioni aumentano lungo la stretta via marittima, il timore che l’Iran possa interferire con il flusso commerciale internazionale cresce esponenzialmente. Infatti, il 22 giugno scorso, poche ore dopo il bombardamento statunitense contro i siti nucleari iraniani, il parlamento dell’Iran ha approvato una misura che sottoponeva al Consiglio supremo di Sicurezza Nazionale il blocco dello stretto – poi bocciato. Vista l’importanza geopolitica della via marittima, si tratta di una minaccia spesso usata dall’Iran, che tuttavia non l’ha mai davvero messa in atto. Un’analisi del New York Times evidenzia proprio la cruciale importanza che lo stretto ha per l’economia mondiale: un’interruzione della fornitura del petrolio che vi passa attraverso, vista l’interdipendenza dell’economia globale, avrebbe effetti devastanti per l’economia di tutto il mondo. Secondo una stima di Goldman Sachs, in caso di chiusura dello stretto di Hormuz, il prezzo del petrolio rischierebbe di passare da 70 a 110 dollari al barile, un aumento di quasi il 60%. Questo si tradurrebbe in una crescita dell’inflazione globale 0,3-0,4 punti percentuali . Vista un’economia mondiale in questo periodo già incline all’inflazione, la situazione potrebbe dunque degenerare. L’effetto degli attacchi americani Dopo che gli Stati Uniti hanno attaccato l’Iran lo scorso sabato 21 giugno, diverse navi petroliere hanno invertito la rotta, evitando di passare attraverso lo Stretto di Hormuz. Ma già da quando Trump aveva manifestato l’intenzione di attaccare l’Iran, la settimana precedente ai bombardamenti statunitensi solamente 703 navi hanno attraversato il passaggio strategico, segnando un calo del 14% rispetto alla settimana precedente. Le quotazioni del petrolio sono quindi salite esponenzialmente fino al lunedì successivo, quando è stato siglato un accordo di cessate il fuoco. Martedì 24 giugno i prezzi sono tornati a 65 dollari a barile, segnando in pochi giorni una caduta del 10% e tornando alla quotazione precedente al conflitto. In quei giorni le difficoltà in ingresso e uscita dallo stretto sono state ulteriormente esacerbate dai tentativi di interferenza iraniani coi sistemi GPS delle navi: secondo Windward, società di analisi dei dati marittimi, nella prima metà di giugno gli attacchi sono stati rivolti a una media di addirittura mille navi al giorno. Vista la situazione già complessa, qualsiasi ulteriore tentativo di chiudere lo stretto – o anche solamente di ostacolare ulteriormente il traffico – rischia di danneggiare ancora di più i grandi produttori di energia dell’area, tra cui Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Qatar. Di conseguenza, l’Iran non sembra intenzionato a spingersi molto oltre. Quali sarebbero i Paesi più colpiti da una chiusura? Negli ultimi decenni, i maggiori acquirenti di petrolio – che un tempo erano i Paesi occidentali – sono diventati asiatici. Gli Stati Uniti hanno infatti più che raddoppiato la loro produzione interna negli ultimi vent’anni, passando da 5,2 milioni di barili al giorno a 13,4 e diventando quindi uno dei maggiori esportatori a livello globale, dopo esser stati per lungo tempo il maggiore importatore. Più dell’80% del petrolio e del gas naturale liquefatto che passa attraverso lo stretto è quindi diretto in Asia; di conseguenza, paesi come la Cina stanno facendo e continueranno a fare tutto il possibile affinché lo stretto di Hormuz rimanga aperto. Dei quasi 15 milioni di barili di oro nero che lo attraversano, i Paesi asiatici ne ricevono quasi 12: la Cina 5, Giappone, Corea del Sud e India altri 5 e il resto dell’Asia 2. Europa e Stati Uniti, insieme, non raggiungono invece nemmeno i due milioni. Nel giro di pochi decenni, gli equilibri sono dunque cambiati, ma lo stretto di Hormuz rimane centrale per l’economia globale.

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