Il vero piano di Israele è eliminare l’Ayatollah Khamenei?

Un attacco volto a disarticolare il deterrente nucleare iraniano o piuttosto un tentativo più ampio di sostanziale rovesciamento degli assetti della Repubblica Islamica, mettendone nel mirino i vertici, fino alla stessa Guida Suprema Ali Khamenei? Mentre la guerra lanciata da Israele contro l’Iran entra nel quarto giorno, si delineano i contorni di un’operazione a tutto campo che per estensione degli obiettivi, complessità e ampiezza del numero di mezzi utilizzati sembra andare ben oltre gli obiettivi dichiarati dal governo di Tel Aviv, cioè la prevenzione di una presunta minaccia imminente da parte di un Iran prossimo a dotarsi dell’arma atomica. Del resto, nella giornata odierna il direttore generale dell’Agenzia Internazionale dell’Energia Atomica , ha dichiarato che dopo i colpi subiti nella giornata di venerdì i siti nucleari di Fordow, Natanz e Isfahan non hanno subito ulteriori danni sostanziali, mentre nel frattempo gli obiettivi dei bombardamenti israeliani si estendevano fino a includere impianti di produzione del gas naturale nel giacimento di South Pars, aeroporti come quello di Mashhad, a 2.300 chilometri dallo Stato Ebraico e, soprattutto, ministeri e centri di comando della difesa e dell’intelligence iraniane nella capitale Teheran. Grossi ha segnalato, nota il Times of Israel, che a Natanz, Isfahan e Fordow Israele ha colpito a livello superficiale: un’analisi coerente con le prospettive presentate dagli esperti di questioni militari, certi del fatto che solo il sostegno degli Usa garantirebbe a Tel Aviv la capacità di colpire le componenti sotterranee degli impianti. E dunque, in assenza per ora del sostegno operativo Usa nei raid, anche con l’analisi di chi pensa a una campagna con obiettivi più ampi: Tel Aviv rivendica la conquista della supremazia aerea e ha già pesantemente sfoltito i ranghi degli alti vertici militari e securitari iraniani, colpiti a Teheran tra venerdì e domenica. All’appello manca la Guida Suprema, massima autorità politica, militare e religiosa del Paese. Khamenei nel mirino Funzionari israeliani hanno dichiarato al Wall Street Journal che l’eliminazione di Khamenei, 86enne leader del Paese dal 1989, non è “esclusa dalle ipotesi”, mentre esponenti dell’amministrazione Usa contattati da Reuters hanno affermato che il presidente Donald Trump avrebbe per ora messo il veto sull’inserimento dell’Ayatollah nella lista degli obiettivi che l’Israel Defense Force dovrà colpire in Iran nel contesto di un confronto col primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Dichiarazioni, queste, che sottendono un dato chiaro: Israele sembra voler intendere di aver informazioni precise sull’Ayatollah ed essere pronto a sfruttarle per colpirlo. Elemento questo, che appare plausibile alla luce della precisione della raccolta informativa che nei giorni scorsi ha condotto alle eliminazioni mirate di militari e scienziati nucleari di cui l’Idf sapeva, simultaneamente, posizione e spostamenti e, al contempo, potrebbe configurare una chiara impostazione politico-strategica della campagna di Israele: favorire e accelerare un cambio di regime in Iran per completare una campagna di ridefinizione degli equilibri del Medio Oriente che dal 7 ottobre in avanti Tel Aviv ha condotto con forza. Ian Parmeter, ricercatore del Middle East Studies dell'Australian National University, è convinto che per Israele si sia aperta una finestra d’opportunità unica per favorire un cambio di regime in Iran. La proiezione regionale di Teheran è stata notevolmente ridotta con i danni inferti da Israele a Hezbollah nel 2024 e con la caduta del regime di Bashar al-Assad in Siria e, ha scritto Parmeter su The Conversation, con una crescente fragilità interna: “Le manifestazioni anti-regime avvenute nel corso degli anni, la più recente delle quali è stata la protesta “Donne, Vita, Libertà” dopo la morte, avvenuta nel 2022 sotto custodia della polizia, di una giovane iraniana, Mahsa Amini , hanno dimostrato quanto sia impopolare il sistema dominante”, scrive l’analista. Al contempo, la guerra rischia di causare uno shock economico-sociale di ampia portata: Israele sta bombardando anche raffinerie di petrolio, impianti di produzione del gas naturale e centrali di generazione elettrica per aumentare la pressione sull’Iran in una fase critica e far pesare sul governo di Teheran le responsabilità per eventuali blackout o interruzione della generazione nel periodo di picco della domanda nella rovente estate persiana. I rischi della strategia del collasso Tutto sembra convergere per accelerare il collasso del sistema politico e istituzionale iraniano tramite la sovrapposizione tra due manovre: da un lato, togliere al governo il terreno sotto i piedi tramite i raid e l’assedio al potenziale economico; dall’altro, la “caccia” fisica ai suoi leader, a partire da Khamenei, mentre non sembra essere un bersaglio il presidente Masoud Pezeshkian. L’Iran non ha ancora ben chiari quali potrebbero essere gli equilibri nell’alto clero sciita in caso di morte di Khamenei e la speranza di Israele è quella di operare per consegnare il Paese al caos. Ma perseguire una strategia tanto ardita presenta dei rischi. Innanzitutto, non è detto che un attacco al regime, nonostante la sua impopolarità, finisca per isolarlo: sussiste la possibilità che gli attacchi uniscano tutti gli iraniani attorno al regime contro Israele, portandoli a stringersi attorno alla bandiera. In secondo luogo, un’alternativa solida a Khamenei e al suo regime ad oggi non c’è: i Mujaheddin del Popolo di stampo socialista e la corrente monarchica fedele al pretendente al trono Ciro Reza Pahlavi non godono di grande sostegno interno o di appoggi operativi per sfruttare la situazione. In terzo luogo, anche colpendo Khamenei in Iran resterebbero centinaia di migliaia di guardiani della Rivoluzione e militari in armi e assetto operativo la cui risposta sarebbe tutto da valutare. Non è dunque detto che, anche colpendo la Guida Suprema, Israele potrà favorire la transizione dell’Iran a un regime più gradito come attore politico regionale o aperto a un confronto attivo e non conflittuale con lo Stato Ebraico, specie se questo si associasse a un massiccio danneggiamento delle infrastrutture e dei settori cruciali per la sopravvivenza del Paese mediorientale. La lezione dell’Iraq post-Saddam Hussein e delle brutte sorprese che ha riservato agli Usa deve essere, in questo caso, quantomeno istruttiva.

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