Proteste in Serbia, la prima vittoria degli studenti

“Non siamo stanchi”, a cantarlo in coro gli studenti serbi, mentre smontano i gazebo e gli striscioni davanti alla sede della RTS, il servizio pubblico radio-televisivo. Dopo 14 giorni di presidio per impedire l’ingresso dei dipendenti nell’edificio, lunedì è stata accolta la loro richiesta: indire un concorso per la nomina di nuovi membri dell’Organismo di regolamentazione dei media elettronici che è chiamato a vigilare sulla terzietà del giornalismo. Fine del blocco: studenti 1, autorità 0. Si tratta di un primo passo per riformare il servizio pubblico che è considerato un megafono del Presidente Vučić, al potere da oltre un decennio. “È una vittoria, una piccola vittoria”, ci dice una studentessa sorridente. Si festeggia con musica, tamburi, balli fino a notte fonda, insieme ai tanti cittadini che si sono uniti all’iniziativa e che per due settimane hanno partecipato alla blokada, “blocco” in serbo, spalla a spalla con i GenZ. Il timore che la concessione delle autorità si riveli effimera e che i membri attuali dell’organismo siano sostituiti con degli altri rappresentanti pro-Vučić è forte, ma è uno scenario già vagliato. “Se dovesse rivelarsi una presa in giro, torneremo qui a bloccare la RTS: ormai hanno visto cosa siamo capaci di fare con i nostri mezzi pacifici”, ci risponde la ragazza. Gli studenti sanno di essere solo all’inizio e di avere conquistato sul campo la credibilità che serve per essere presi sul serio da chi è al vertice. Da quando il primo novembre scorso è esploso il dissenso contro la corruzione endemica - così la definiscono - dopo il crollo di una pensilina nella stazione di Novi Sad che ha provocato la morte di 16 persone, le autorità non hanno soddisfatto nessuno dei cinque requisiti considerati necessari per valutare uno stop delle proteste: dalla desecretazione degli atti per punire i responsabili ai provvedimenti severi nei confronti di chi ha aggredito nel corso dei mesi gli studenti durante le loro proteste pacifiche. Ogni giorno da quasi sei mesi si scende in piazza da Nord a Sud per chiedere un radicale cambio di sistema. I raduni piccoli e grandi continuano ininterrotti e il rumore dei fischietti, che sono diventati un simbolo insieme alle vuvuzelas, è un sottofondo costante. Il 15 marzo scorso in piazza nella capitale sono arrivate da tutta la Serbia tra le 250 mila e le 350mila persone, secondo fonti indipendenti. Anche nelle altre città l’affluenza è stata nell’ordine delle centinaia di migliaia di persone. Il presidente non è restato a guardare: ha minacciato più volte di passare alle maniere forti per mettere fine al “terrore” degli studenti e ha convocato il 13 aprile una contromanifestazione. Una prova di forza che si è rivelata un flop per la partecipazione al di sotto delle aspettative - 150mila persone secondo l’Archivio dei raduni pubblici - e per gli argomenti da outsider utilizzati nel suo discorso alla nazione. Le università restano occupate, la didattica è ferma. E in molti atenei l’alleanza tra docenti e studenti è saldissima. Non a Novi Sad, dove mentre i belgradesi festeggiavano il successo del blocco dell’RTS, il presidente della facoltà di Sport cercava di entrare nell’edificio scortato dalle forze dell’ordine. “Ci hanno accusato di averlo spinto, ma in realtà siamo stati noi ad essere attaccati dalla polizia. Lo dimostra la contusione riportata da una ragazza. Uno dei nostri compagni è stato arrestato senza un valido motivo. Abbiamo avuto paura, ma anche questa è stata una vittoria: abbiamo dimostrato che rompere i blocchi non è così facile come pensano”, ci racconta una futura ingegnera che è disposta a perdere l’anno pur di “portare la democrazia” nel suo Paese. La incontriamo tra le vie del campus universitario, fondato a partire dagli anni Cinquanta e che è considerato uno dei centri di ricerca e studio più importanti dell’Europa centrale. Fa parte di quegli studenti instancabili che ormai vivono nelle università occupate e si trattengono ben oltre i turni assegnati. Si combatte per il futuro, senza retorica. ”Possiamo anche laurearci in tempo, ma il problema rimarrebbe, perché se non cambiano le cose ci troveremmo disoccupati o malpagati o costretti ad accettare lavori non all’altezza delle nostre aspettative e dei nostri studi, costretti a scendere a compromessi con un sistema corrotto fino al midollo. La corruzione si è mangiata il Paese. Io so che dovrò andare in Germania, così come la maggior parte dei miei compagni ha intenzione di emigrare. Per questo protestiamo, per restare in Serbia, per farne un posto migliore”, ripete. C’è un clima di attesa. Il primo maggio si terranno due grandi manifestazioni. A Belgrado davanti al Governo si riuniranno cinque sigle sindacali che sostengono i blocchi, insieme agli studenti che invitano i cittadini a scendere in piazza e festeggiare il primo maggio ”nel modo giusto”. Si va verso uno sciopero generale? Per molti sembrerebbe quella direzione e in quel caso si tratterebbe di uno sciopero vero e non simbolico come quelli di gennaio e marzo. È la festa del lavoro sì, ma soprattutto l’anniversario dei sei mesi della tragedia della stazione, quando tutto è cominciato. O meglio il dissenso accumulato in un decennio è esploso. ”Anche a Novi Sad è previsto un partecipato appuntamento di protesta. Qui avrà un peso ancora maggiore - conclude la studentessa - perché è la città ferita e per noi avrà una portata simbolica enorme”.

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