Sudan, a due anni dallo scoppio della guerra civile la pace è lontana

Il conflitto che divide il regime militare di Abdel Fattah al-Buhran e i ribelli delle Forze di Supporto Rapido guidate dal generale Mohammad Hamdan Dagalo, detto Hemetti, ha causato la morte di oltre 150mila persone, contribuito a creare una delle più gravi crisi umanitarie al mondo e costretto alla fuga dalle proprie case 12,7 milioni di persone, un terzo circa delle quali ha trovato in rifugio in Paesi limitrofi. Inoltre, due sudanesi su tre sopravvivono grazie agli aiuti umanitari in uno Stato sconvolto da un conflitto che nelle ultime settimane è aumentato ulteriormente di intensità. Tutti i fronti della guerra in Sudan Il conflitto continua a imperversare e, ad oggi, risulta lontano sia da un esito decisivo sul piano militare sia dalla stabilizzazione necessaria per aprire a un credibile compromesso di pace. Questo vale sul piano degli equilibri sul campo, dei rapporti politici e degli scenari umanitari. Sul primo fronte, le Forze armate sudanesi del governo di al-Buhran sono reduci da settimane di importanti avanzate sul campo di battaglia. L’esercito sudanese si è consolidato attorno alla regione della capitale, riconquistando totalmente Khartoum a fine marzo, quando dopo quasi due anni gli uomini di al-Buhran hanno rimesso piede nel palazzo presidenziale, la cui caduta segnalò l’ampiezza delle ambizioni di Hemetti nel 2023. Inoltre, sono caduti in mano alle Saf anche l'aeroporto di Khartoum che vaste zone dello Stato di Gezira, dove i combattimenti sono stati più intensi dal 2024 in avanti. In diverse aree la ritirata delle Rsf è stata seguita da violenze e saccheggi, come del resto era accaduto due anni fa quando a avanzare erano stati i ribelli. Ciononostante, il Middle East Institute afferma che un vero equilibrio militare è ancora lontano, dato che a Ovest e Nord di Khartoum le Rsf restano ben trincerate. Caduta Khartoum, “i combattimenti continuano nella vicina Omdurman e nella regione del Nord Darfur”, nota l’analisi del Mei, in un contesto che vede critiche anche le condizioni politiche del Sudan. Spaccature interne, ingerenze esterne Venendo al secondo punto, infatti, bisogna innanzitutto sottolineare come a febbraio a Nairobi le Rsf abbiano formato un loro governo che si proclama unico detentore della sovranità sull’intero Paese. In regioni come il Darfur e il Kordofan, di fatto, le Rsf guidano amministrazioni unitarie con altri gruppi ribelli paragonabili a veri e propri Stati paralleli. Le Nazioni Unite, il G7 e l’Unione Africana hanno contestato questa mossa, che secondo molti osservatori apre a una spaccatura definitiva del Paese, mentre il Sudan denuncia un tentativo di sottrazione del suo territorio da parte degli uomini di Hemetti, dietro cui Khartoum sospetta ci siano mani straniere come quelle degli Emirati Arabi Uniti, che li riforniscono di armamenti. Come scritto da Irene Panozzo su Ispi, “per poter consegnare le armi, gli Emirati userebbero il territorio ciadiano, lungo il confine con il Darfur quasi completamente controllato da Rsf” e, inoltre, “aiuti arriverebbero anche attraverso i confini tra Darfur e Sud Sudan, Libia e Repubblica centrafricana, spesso in base a rapporti commerciali e politico-militari locali e non necessariamente per decisione dei rispettivi governi”. Abu Dhabi sarebbe interessata a influenzare il Paese africano e a mettere le mani sulle sue riserve di oro e petrolio e sui suoi numerosi terreni fertili, e il Sudan ha denunciato gli Emirati alla Corte Internazionale di Giustizia per il loro presunto ruolo nelle atrocità commesse in Darfur e per il sostegno a una sospetta pulizia etnica dei gruppi non arabi. Ma il Mei ha ricordato che sono molti gli attori esterni che hanno alimentato la guerra, facendo notare come oltre agli Emirati “il Consiglio europeo per le relazioni estere annoveri Ciad, Egitto, Iran, Kenya, Libia, Russia, Somalia e Turchia tra coloro che hanno facilitato l'afflusso di armi in Sudan nell'ambito dei rispettivi – e spesso contrastanti – obiettivi strategici nel Paese, che includono interessi geopolitici e commerciali”. La sovrapposizione tra interessi tanto contrastanti e complessi non aiuta a definire nel migliore dei modi una prospettiva politica chiara per il Sudan, e come successo in Libia e in passato in Siria il rischio è che si consolidi un contesto in cui governi centrali deboli non riescono a esercitare la loro autorità sull’intero Stato, facendo spazio alla frammentazione e all’ingerenza di potenze straniere. Una catastrofe umanitaria All’ombra di queste problematiche persiste, terzo e ultimo punto, il grave problema umanitario. Quella sudanese è una delle peggiori crisi al mondo, e ad oggi un rifugiato su otto al mondo è sfollato dal martoriato Paese africano. Su questo fronte, stando ai rapporti spesso contrastanti che giungono dal campo, emerge come sia le Rsf che le Saf abbiano grandi responsabilità nell’incentivazione alla fuga di massa delle popolazioni nelle aree che cadono sotto il controllo dell’una o dell’altra parte. La popolazione civile è stata spesso un bersaglio nei due anni di guerra. Solo per riferirci a casi recenti, a dicembre un attacco aereo delle Saf su un villaggio del Darfur ha causato oltre cento vittime, mentre dopo la caduta di Khartoum a marzo una fossa comune con 500 cadaveri con segni di tortura è stata scoperta a Nord della capitale a seguito della ritirata delle Rsf. Da ultimo, è di ieri la notizia che i ribelli di Hemmeti avrebbero ucciso più di 200 civili negli attacchi ai campi profughi di El Fasher e dintorni, in Darfur, come riportato dal Guardian. Un ultimo esempio di una lunga serie di violenze che, commesse da entrambe le parti, ha contribuito a rendere la guerra civile sudanese un conflitto sempre più complesso. A due anni dall’inizio degli scontri, non sembra tirare aria di pace su nessun fronte per il martoriato Paese africano. E non si intravede, nel breve periodo, alcuna svolta.

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