La folla oceanica a Belgrado e il futuro delle proteste in Serbia

E ora? È la domanda che risuona camminando per le strade di Belgrado nel day after di quella che è stata una delle manifestazioni più grandi degli ultimi decenni nel Paese balcanico. Strade che fino a solo poche ore prima erano invase da una folla oceanica ora sono silenti, quasi ci sia bisogno di un tempo per elaborare un fatto così imponente. Le proteste, del resto, sono state un crescendo, da quando, dopo il crollo di una tettoia nella stazione della seconda città del Paese, Novi Sad, e la morte di quindici persone sotto le macerie, gli studenti hanno mobilitato la società civile interpretando un’insofferenza generalizzata nei confronti del partito conservatore che è al potere da un decennio, e nei confronti della deriva autoritaria del governo. L’SNS, il partito progressista serbo del presidente Vučić, è accusato di essere al vertice di un sistema di corruttele che ha fatto sprofondare la Serbia in una crisi morale, sociale ed economica irreversibile. Di settimana in settimana si sono uniti sempre più cittadini con due prove generali il 7 e l’8 marzo, in occasione di un grande sciopero nazionale e della Giornata per i diritti della donna, in cui gli slogan si sono uniti in modo “intersezionale”. Le aspettative sul 15 marzo e sul grande raduno di Belgrado erano altissime e non sono state disattese. La capitale è stata la meta di un pellegrinaggio laico di agricoltori, insegnanti, autotrasportatori, liceali, veterani dell’esercito, religiosi. A guidarlo gli universitari, l’anima della protesta. Lo stesso presidente Vučić ha dovuto ammettere in conferenza stampa che chi è al potere non può ignorare un simile messaggio arrivato dalla piazza. "Dovremo cambiare”, ha confessato pur ribadendo la sua tesi, ovvero che la manifestazione non era autorizzata e che gli studenti stanno portando avanti una battaglia pretestuosa per rovesciare il risultato delle elezioni del 2023, "una rivoluzione colorata". Una giornata di festa con tensioni Una grande festa cominciata venerdì sera con l’ingresso trionfale degli universitari venuti da tutta la Serbia. Canti, cori, musica, l'entusiasmo vibrante dei cittadini arrivati dagli angoli più remoti del Paese che con strette di mano e abbracci hanno acclamato il corteo di GenZ salutati come “salvatori della patria”. Un lunghissimo tappeto rosso è stato steso nel centro della città a Terazije per dare importanza al loro passaggio. Un ragazzo di 22 anni sventola una bandiera con impresso il volto del Cristo ortodosso, non l’unica icona che si vede in aria. Sembra sia lì a ricordarci che è una piazza trasversale, non solo progressista, non solo europeista. Ci dice che è venuto a Belgrado perché non vuole che “si precipiti in una dittatura”, che quello in carica è il “Presidente peggiore di sempre”, che non stanno né con l’Ue, né con la Russia, ma solo “dalla parte della Serbia”. Del resto, è un Paese in bilico: sullo sfondo c’è un processo di adesione all’Unione Europea che è in stallo e resta la tradizionale vicinanza storica e culturale tra serbi e russi, che vede Belgrado vicina a Mosca su importanti dossier, come l'Ucraina - la Serbia non ha imposto sanzioni alla Russia a seguito dall'invasione - sebbene negli ultimi tempi Vučić abbia più volte detto, salvo poi contraddirsi, che “l’Europa è la nostra strada”. Poco distante in divisa un veterano delle forze speciali: “Sono qui a difendere la nazione, come facevo quando ero in servizio, è la mia missione di vita”, afferma. Sono tanti gli uomini in divisa, molti ex militari dell’esercito jugoslavo che aiutano gli studenti nel servizio d’ordine, soprattutto in prossimità dei luoghi sensibili per contenere potenziali esaltati. Fino a notte fonda si sente il suono dei fischietti, simbolo della protesta nonviolenta, ma la sveglia è per la mattina presto. Dalle 10 i primi blocchi stradali, poi tutti davanti al Parlamento dove parte il corteo alle 16. La tensione è già forte da giorni, da quando si è costituito un accampamento davanti al Parlamento di sedicenti “giovani che vogliono imparare” contro il blocco della didattica che va avanti da mesi. Per le opposizioni quelli sono studenti fake o peggio hooligans al servizio di Vučić per destabilizzare la situazione. La paura che qualcuno esterno al movimento studentesco possa tentare di fare irruzione in Assemblea spinge gli studenti a dirottare la manifestazione a Slavija, uno dei grandi crocevia della città dove è allestito un palco. Incontriamo Milenko 37 anni, disoccupato: “Qui in Serbia si trova lavoro solo se hai la tessera del partito di governo”, denuncia. Col suo trattore Dragan, un agricoltore di 62 anni, ci confessa che spera che sia l’ultimo giorno della presidenza Vučić: “I nostri giovani hanno dato vita a tutto questo - spiega indicando la folla che lo circonda - I nostri giovani sono la nostra forza, sono coraggiosi e intelligenti”. L’atmosfera festiva si interrompe solo verso le 19, quando la situazione si complica. Dal lato dell’Assemblea nazionale, il lancio di sassi e bottiglie dal camping di sostenitori del presidente in direzione della folla. Segue un’ora di preoccupazione massima, con la polizia antisommossa che si moltiplica e i manifestanti, semplici cittadini e non più studenti, che rimangono a presidiare. In contemporanea i 15 minuti di silenzio in memoria delle vittime di Novi Sad vengono interrotti nel terrore generale da una detonazione nei pressi della già citata Slavija. Noi in quel momento ci troviamo a poca distanza e assistiamo a un momento di fuggi fuggi generale. Si tratterebbe di un'arma sonica, in dotazione del sistema di sicurezza serbo: un dispositivo non letale che emette fortissime onde sonore. Il governo e il presidente vengono accusati di utilizzare metodi illegali per disperdere i manifestanti, ma negano tutto. “Una bugia odiosa”, insiste Vučić. Gli studenti fino a quel momento impegnati nella gestione logistica della manifestazione e nella sicurezza si tolgono simbolicamente la pettorina gialla e segnalano l’accaduto su Instagram: “La protesta è finita, questa non è più la nostra manifestazione. Invitiamo i manifestanti a ritirarsi per non incorrere in incidenti”. Il dibattito nel day after Sulle pagine dei media serbi si cerca di far chiarezza sull’accaduto. Sui social oggi si parla solo di questo. Chi era presente racconta di essere caduto a terra spazzato via come da una folata di vento fortissima. Un cittadino denuncia di avere problemi con il pacemaker e che sarebbero in tanti come lui ad essersi recati in pronto soccorso per delle interferenza anomale. Un tema questo di cui si continuerà a discutere nelle prossime ore, mentre impazza il toto numeri sulla manifestazione. Secondo la polizia i manifestanti erano poco più di 100mila, mentre l’esercito parla di 88mila presenze. Dal canto loro gli organizzatori parlano di mezzo milione di persone in strada e un organismo indipendente, l’Archivio dei raduni nazionli che è specializzato in questo tipo di conteggio, ha stimato un numero che va dai 275mila ai 325mila, ma che “a causa delle dimensioni eccezionali, della natura dinamica e della struttura del raduno, nonché della situazione poco chiara in alcune parti della capitale, in particolare a Nuova Belgrado , non sia possibile una valutazione più precisa”. La risposta del Presidente Intanto Vučić si prepara a rispondere con un contro-raduno. Nei giorni scorsi ha comunicato che il 21 marzo lancerà un grande movimento popolare e che il 28 “chi ama la Serbia” si ritroverà in piazza per una grande manifestazione. La svolta che si aspettava non c’è stata, la proposta ventilata dal presidente di andare di nuovo alle urne per una conferma di legittimità è guardata con sospetto ed è già stata respinta. Le opposizioni e gli universitari ritengono che ci sarebbero brogli ed elezioni non trasparenti. Non c’è ancora una data per il prossimo appuntamento di protesta, ma gli studenti hanno promesso che il 15 marzo è stato solo l’inizio. In serata con un post su Instagram dalla pagina dedicata ai blocchi tuonano: "Le nostre richieste non sono state ascoltate". I blocchi delle università continuano e anche quelli stradali organizzati quotidianamente: "È finita quando decidiamo noi che è finita".

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