Il caso Almasri, una storia che si ripete

Il generale Nijeem Osama Almasri è il capo della polizia giudiziaria libica. La sua biografia non è il cuore di questo articolo, ci basti sapere che la Corte penale internazionale - con una maggioranza di due giudici a uno – ha emesso un mandato d'arresto per crimini di guerra e contro l'umanità commessi nella prigione di Mitiga, vicino a Tripoli, dal febbraio 2011. In quel carcere sotto il comando di Almasri, secondo i documenti dell'Aia, sarebbero state uccise 34 persone e violentato un bambino. Mitiga, lo ricordiamo, è un centro di detenzione tragicamente famoso; era il carcere degli oppositori politici di Gheddafi e dove vengono detenuti in modo brutale migranti di passaggio dalla Libia. Insomma, un vero e proprio lager. Ora, la domanda è questa: Almasri è stato rispedito a casa con un volo di Stato perché è un nostro interlocutore politico? È tra i dirigenti libici con cui ci interfacciamo per gestire dossier complessi, come i flussi di migranti? Non abbiamo una risposta e prove certe, ma abbiamo una storia da raccontare, quella dei rapporti tra Italia e Libia. Qui, ci sono tanti precedenti interessanti. Il passato coloniale L’Italia occupò la Libia nel 1911, sottraendola all’Impero Ottomano durante la guerra italo-turca. La colonia italiana di Libia fu ufficializzata nel 1934 in piena epoca fascista e rimase sotto il controllo di Roma fino alla Seconda Guerra Mondiale. Durante il dominio italiano, la Libia visse profonde trasformazioni economiche e infrastrutturali. Paradossalmente, in quell’epoca, erano gli italiani ad andare in Libia a cercare fortuna. E a trovarsi di fronte non solo opportunità ma anche la resistenza politica locale, guidata da figure come Omar al-Mukhtar. A proposito, ricordate il colonnello Gheddafi nel 2009 in visita a Roma con le Amazzoni al seguito per la sua “sicurezza” e la foto proprio di al-Mukhtar affissa sul petto? Un modo per ricordare l’eroe “patriota” e anti-colonialista. Torniamo alla Storia: finita la Seconda Guerra Mondiale, la Libia passò sotto l'amministrazione delle Nazioni Unite e ottenne l'indipendenza nel 1951 sotto il re Idris I. Ma l’Italia, più che un passo indietro definitivo, fa un passo di lato e dopo poco riannoda il suo destino alla Libia, grazie ad accordi commerciali e alla presenza di aziende italiane nel Paese. L'era Gheddafi Nel 1969, il colonnello Muammar Gheddafi prese il potere con un colpo di Stato, instaurando un regime che durò oltre 40 anni, fino al 2011. Gheddafi adottò una politica estera ambivalente nei confronti dell'Italia, riflessa proprio in quella iconica e provocante visita in Italia del 2009: da un lato, denunciava il passato coloniale e chiedeva risarcimenti per i danni subiti dalla Libia; dall’altro, collaborava con Roma per questioni economiche e, in particolare, energetiche. Negli anni ‘70 e ‘80, l’Italia, con l'ENI, giocò un ruolo fondamentale nello sfruttamento delle risorse petrolifere libiche. E mentre proliferavano gli affari, la cronaca parlava d’altro: ricordiamo l’attentato alla discoteca La Belle di Berlino del 1986 attribuito ai servizi segreti libici, il successivo bombardamento statunitense di Tripoli e Bengasi, poi l’attentato sul volo Pan Am 103 precipitato a Lockerbie del 1988. Un punto di svolta si ebbe nel 2008, quando il governo italiano guidato da Silvio Berlusconi firmò con Gheddafi il Trattato di Amicizia, Partenariato e Cooperazione, poi ratificato nel 2009. Questa intesa prevedeva in sostanza 5 miliardi di euro a titolo di compensazione per l’occupazione militare in cambio di misure per combattere l’immigrazione clandestina. Eccoci qui: soldi per evitare sbarchi. Inutile dire che, già in questa occasione, ci furono proteste e manifestazioni di piazza al grido di “non si fanno affari con i terroristi”. Il caos dopo Gheddafi Nel 2011, la Libia di Gheddafi si sbriciola, il regime cade e il Paese sprofonda in una guerra civile che non è ancora finita. Due grandi potentati a Tripoli e Bengasi e una miriade di clan locali, armati e in lotta tra loro. È un caos da cui fanno fatica a emergere interlocutori credibili. L’Italia più volte cerca di mediare tra le varie fazioni libiche, i risultati delle Conferenze di Pace sono sempre sommari e di breve durata. Ma la questione migratoria resta sempre centrale. In che modo ci comportiamo? Nel 2016, oltre 181mila arrivi, nel 2017 si prospettano numeri ancora più impressionanti, una vera e propria emergenza. Il ministro dell’interno Minniti, governo Gentiloni, si muove e stringe accordi con i capitribù libici e con il debole governo “centrale”: ancora una volta, in sostanza, soldi per evitare sbarchi. In questo caso, ci impegniamo a dare supporto alla guardia di frontiera, ai guardacoste. Un capitolato molto ramificato e complesso ma che, di base, si traduce nel chiedere ai libici di chiudere le porte. I risultati, peraltro, arrivano: gli sbarchi diminuiscono progressivamente. E l’intesa è rinnovata nel 2020 e nel 2023, con altri governi e altri colori politici. E torna lo stesso strabismo del 2009: proteste per i modi brutali, più che documentati, con cui la Libia rispetta la sua parte di accordi e strette di mano per tenere il problema lontano da casa nostra.

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