La vendetta di Trump

Qualche giorno fa ho impiegato alcune ore a convincermi che la foto scelta dal Presidente eletto come scatto ufficiale dell’insediamento fosse autentica. Non potevo credere che Donald Trump avesse scelto un’immagine clamorosamente simile a quella della foto segnaletica diffusa dopo il suo arresto. La tradizione ci ha abituati a immagini in cui i presidenti sfoggiano un sorriso smagliante, guardando l’obiettivo come se già guardassero al futuro radioso che aspetta il Paese sotto il loro mandato. Questa tradizione Trump l’aveva rispettata nel 2017, e la rispetta anche il vice J.D. Vance nella foto che ha scelto per il 20 gennaio 2025. Trump no. Non stavolta. Stavolta il presidente ha deciso per un ritratto un po’ torvo: gli occhi bassi, lo sguardo minaccioso, un mezzo sorriso un po’ beffardo e un po’ inquietante. Non è un caso, ovviamente. Ai raduni trumpiani di questi ultimi mesi una delle t-shirt più vendute recitava con orgoglio: “ho votato per il felon”, per il condannato. Adesso, guardate un po’, il felon è arrivato alla Casa Bianca e lo rivendica con orgoglio scegliendo come immagine simbolo una foto che invece di nascondere la condanna come un’onta la mette in bella vista come una medaglia. Il sistema che ha decretato la colpevolezza di Trump, d’altra parte, è lo stesso che Trump vuole abbattere fino alle fondamenta: da una parte la palude, dall’altra colui che ha promesso di bonificarla. Nel corso dell’audizione di conferma in Senato Pam Bondi, che Trump vorrebbe ministro della giustizia, ha dribblato la domanda sulla possibilità che il suo Department of Justice apra dei procedimenti contro coloro che, secondo i repubblicani, hanno perseguitato Trump. Il condannato si ergerà a giudice di chi l’ha giudicato colpevole? Nel corso della campagna elettorale Trump ha promesso più volte vendetta. “Sarò la vostra retribution”, urlava ai suoi sostenitori. Nel rapporto quasi spirituale che lega Trump al suo popolo, infatti, il compito messianico del Presidente eletto è quello di ristabilire un presunto equilibrio perduto, togliendo a chi ha ingiustamente sottratto e restituendo a chi è stato ingiustamente defraudato. La retribution di Trump avrà certamente effetti concreti e, a detta dei critici, devastanti, ma è una vendetta che sazia la propria brama principalmente nel mondo dei simboli e della retorica. La foto scelta da Trump per l’inaugurazione compie già una piccola parte di questa vendetta, e quando me ne sono reso conto è stato più facile convincermi che lo scatto non era un fake e che aveva invece perfettamente senso. È retribution lo sguardo minaccioso di chi è pronto a combattere. È retribution la minaccia di dazi. È retribution persino l’idea di andarsi a prendere la Groenlandia, buttata lì come si suggerisce una scampagnata la domenica mattina. E il Golfo del Messico? Chiamiamolo Golfo d’America, perché è più nostro che loro. Retribution. Verrà il momento in cui chi ha votato Trump chiederà conto delle promesse fatte in campagna elettorale. Per ora, però, le minacce bastano da sole a soddisfare la smania di chi crede che il mondo stia andando alla rovescia e non vede l’ora che qualcuno lo raddrizzi. Non sto certo dicendo che quelle di Trump sono solo chiacchiere. Chi non condivide la visione dei repubblicani ha diversi motivi per essere preoccupato, chi la condivide ha buone ragioni per essere entusiasta. Quello che sto dicendo è che in questo caso le semplici chiacchiere rappresentano già qualcosa di importante. Le parole pesano, si dice spesso: in questo caso pesano particolarmente. Se riuscirà a conservare l’atteggiamento di chi sta rovesciando il tavolo Trump continuerà probabilmente a soddisfare le aspettative dei suoi sostenitori più affezionati, a prescindere dal fatto che lo rovesci o meno. Gli ultimi anni ci hanno abituato a un netto scollamento tra la realtà e il modo in cui viene raccontata, dunque è difficile sorprendersi di fronte allo scarto spesso ampio tra le promesse di Trump e la loro concreta fattibilità. Prendiamo l’immigrazione. Il Presidente eletto ha promesso di sigillare il confine non appena entrato alla Casa Bianca, avviando una massiccia deportazione dei migranti illegali. Non sarà facile. Ammesso che qualche tribunale non si metta in mezzo, un’operazione del genere costerebbe miliardi di dollari. Negli Usa, inoltre, c’è una certa ipocrisia rispetto al tema dell’immigrazione illegale: molti clandestini lavorano stabilmente pagando le tasse attraverso numeri fasulli della Social Security. Rimpatriare queste persone priverebbe improvvisamente di forza lavoro interi settori , con pesanti ricadute sull’economia. La deportazione voluta da Trump, inoltre, richiederebbe massicci innesti nel Border Patrol, che già fatica a trovare uomini. Altro esempio, i tagli alle tasse. Prima ancora di entrare alla Casa Bianca Trump ha dovuto fare i conti con i parlamentari repubblicani, non sempre disposti a obbedirgli. Il desiderio di vedere cancellato il tetto del debito è rimasto tale, e i falchi anti-spesa hanno sbarrato la strada al Presidente. E pensare che lo Speaker Mike Johnson ha promesso che i Congressmen repubblicani saranno aggressivi nell’applicare l’agenda del Presidente. Ammesso che rispettino l’impegno, la luna di miele di Trump potrebbe durare solo un paio d’anni: non sono molti i presidenti che riescono a mantenere il controllo di entrambe le Camere alle elezioni di midterm. Ci sono settori in cui Trump avrà una maggiore libertà di manovra. La sanità, per esempio. Trump ha esortato Robert F. Kennedy jr, segretario prescelto e fautore di posizioni da molti considerate antiscientifiche, a “scatenarsi”: difficile pensare che Kennedy declini l’invito. Altri esempi. Le decisioni di Biden sul clima e le energie rinnovabili saranno quasi sicuramente ribaltate. Gli istituti scolastici colpevoli di adottare programmi troppo “woke” in materia di genere e di razza subiranno probabilmente un taglio dei fondi federali. La posizione dichiaratamente pro-Israele dei repubblicani potrebbe garantire a Netanyahu una maggiore libertà d’azione, e lascia intravedere un ulteriore inasprimento dei rapporti con l’Iran solo parzialmente bilanciato dalle trattative sotterranee avviate da Elon Musk con gli uomini di Teheran. Vladimir Putin vede la possibilità di imporre la propria pace all’esausto esercito ucraina, e la Cina – sfruttando la passione di Trump per i negoziati a quattr’occhi – ha avviato un dialogo con il Presidente eletto, dialogo in cui si rischia sempre di non capire bene chi manipola e chi viene manipolato. Quattro anni non sono passati invano. Donald Trump sa bene che nel corso del primo mandato l’applicazione della sua agenda ha subito pesantemente l’opposizione di una parte consistente della burocrazia di Washington. Il programma non conta nulla se chi dovrebbe applicarlo non lo fa, così stavolta Trump ha operato scelte radicalmente diverse già a partire da chi dovrebbe far parte del suo governo: i ministri scelti da Trump non sono semplicemente leali, questo sarebbe comprensibile, ma in alcuni casi vedono nella propria lealtà l’unico motivo valido per giustificare il fatto di essere stati scelti. Non solo. In occasione del primo mandato Trump firmò un ordine esecutivo che cambiava l’inquadramento lavorativo di ventimila impiegati federali, trasformandoli da civil servant indipendenti a lavoratori “Schedule F”, cioè licenziabili unilateralmente dal Presidente. Incalzato da think tank della destra radicale come la Heritage Foundation e l’America First Policy Institute, Trump intende fare la stessa cosa. Solo che stavolta il cambio di contratto riguarderà cinquantamila persone. “È un modo per liberarsi del deep state”, dicono i repubblicani. “È un modo per crearlo”, rispondono gli oppositori. C’è da dire, poi, che preoccuparsi di come si comporterà chi prenderà ordini da Trump ha poco senso se non ci si preoccupa di chi gli sussurra nell’orecchio. Elon Musk ama definirsi il first buddy, l’amico numero uno, e ha messo i suoi soldi e la sua influenza al servizio della prossima amministrazione. Anche in questo caso è lecito chiedersi: chi manipola chi? Gli altri giganti del mondo tech si sono accodati, ma più per non perdere terreno che non per convinzione ideologica. Sono gli aspiranti oligarchi temuti da Biden. Questo è un dramma ricco di personaggi: Steve Bannon, guru della destra ultra conservatrice, ama Trump ma non apprezza Musk. J.D. Vance è il golden boy della new right: scoperto da Peter Thiel, il fondatore di PayPal, esprime tuttavia posizioni vicine a quelle dell’America rurale, scenario del suo romanzo “Hillbilly Elegy”. Trump è un presidente anziano, e per di più la Costituzione gli preclude un terzo mandato. Sullo sfondo sua presidenza andrà in scena la lotta per assumere la guida della destra americana. Questa, però, è un’altra storia.

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