Strage di Capodanno a New Orleans, i veterani di guerra sono un problema per gli Usa?

In uno degli edifici della base militare, il maggiore Nidal Malik Hasan, 39 anni, spara su soldati e civili, uccidendo 13 persone e ferendone 32. Hasan, condannato a morte nel 2013, è un medico psichiatra nato in Virginia da genitori di origini palestinesi. Vent'anni di servizio alle spalle, si è radicalizzato anche a causa di problemi di origine personale. 7 luglio 2016, Dallas. Micah Xavier Johnson, reduce dall'Afghanistan, attacca alcuni agenti di polizia al termine di una protesta pacifica contro il razzismo nelle forze dell'ordine. Dopo la sparatoria Johnson si barrica all'interno di un campus, dove la polizia riesce a ucciderlo utilizzando un robot esplosivo. Il Texas ha una lunga e sanguinosa storia di veterani che imbracciano le armi contro i loro concittadini, a partire da quando - era il primo agosto del 1966 - il marine Charles Whitman uccise la madre strangolandola con un tubo di gomma, tolse la vita alla moglie con cinque coltellate e si diresse verso l'università di Austin armato fino ai denti. Una volta raggiunta la torre dell'orologio, che ancora domina l'ateneo, Whitman aprì il fuoco sulla folla sottostante. Passarono 96 minuti prima che fosse eliminato. All’elenco va ora aggiunto l’episodio di New Orleans, che non è in Texas, ovviamente, ma ha come protagonista un veterano nato a Houston. Nella notte di Capodanno, il 42enne Shamsud-Din Bahar Jabbar ha imboccato Bourbon Street travolgendo la folla festante con un pickup bianco preso a noleggio. Jabbar è stato ucciso in una sparatoria con la polizia, dopo aver ferito due agenti. Nel passato del killer, oltre a diversi grattacapi di natura personale, ci sono una conversione all’Islam e una successiva radicalizzazione. A bordo del pickup è stata recuperata una bandiera dell’Isis. Nel momento in cui scrivo le indagini devono ancora chiarire diversi elementi cruciali: Jabbar aveva dei complici? I suoi legami con l’Isis erano concreti o solo ideali? Che tipo di connessione c’è, se c’è, con l’esplosione di una Tesla di fronte alle Trump Towers di Las Vegas, nelle stesse ore? Al di là delle risposte che potranno essere date a queste domande, abbiamo già una certezza. Al ritorno dai teatri di guerra in cui vengono impiegati, i soldati statunitensi affrontano traumatici periodi di transizione, e il loro reinserimento nella società è molto spesso complicato. Non tutti sfogano la loro frustrazione accanendosi su civili inermi, fortunatamente, ma episodi come quello di New Orleans sono la spia di un disagio più ampio. Un rapporto commissionato dal Pentagono nel 2023 sottolinea come “la perdita dell’identità militare abbia una forte legame con le difficoltà di adattamento alla vita civile, adattamento che può a sua volta contribuire a comportamenti negativi”. Questo è vero soprattutto per chi ha combattuto dopo l’11 settembre 2001. Nel 2019 il Pew Research Center ha calcolato che circa la metà dei veterani impiegati dopo gli attentati di Al Qaeda ha incontrato difficoltà di reinserimento più o meno gravi. Tra coloro che hanno prestato servizio prima di quella data fatidica, “solo” uno su cinque ha avuto lo stesso tipo di difficoltà. Circa un terzo dei veterani in servizio dopo l’11 settembre sostiene di aver sofferto di sindrome da stress post-traumatico, non sempre affrontata con l’ausilio di un professionista. Considerati nel complesso, i veterani americani sono compatti nell’affermare di aver ricevuto un addestramento in grado di prepararli per la vita sotto le armi. Ne è convinto il 91%. Solo il 52%, però, afferma di essere stato preparato con altrettanta cura per il ritorno alla vita civile. Un terzo dei veterani ha faticato a pagare le bollette nei primi anni dopo il congedo, tre su dieci hanno incassato assegni di disoccupazione. Uno su cinque ammette di aver lottato contro la dipendenza da alcol o droghe. Le percentuali, ovviamente, salgono se ci si concentra solo su chi ha ricevuto una diagnosi di disturbo da stress post-traumatico. Lo scarto tra la vita sotto le armi, dura ma ordinata, e quella all’interno della società civile, più libera ma più caotica, non rappresenta l’unico problema di chi si congeda. A creare difficoltà sono anche i dubbi sul motivo per cui si è messa a rischio la propria vita, spesso spezzando quella di altri esseri umani. Il 58% dei veterani interpellati ritiene che la guerra in Afghanistan non meritasse di essere combattuta. La percentuale sale al 64 se ci si riferisce al conflitto in Iraq. Per alcuni il ricordo della vita in armi è gravoso. Spesso questo ricordo si somma alla difficoltà di ricominciare a vivere lontano dal fronte, e in alcuni casi il tutto si intreccia a problemi di natura privata e personale. Questi veterani sono come micce in cerca di una fiamma: qualcuno abbraccia il fondamentalismo islamico, qualcun altro il suprematismo bianco, per altri ancora la violenza stragista è uno scopo in sé. Quasi sempre il movente più superficiale rischia di mettere in secondo piano quello più profondo.

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