La caduta di Assad è una sconfitta per la Russia

Per la Russia di Vladimir Putin la caduta di Bashar al-Assad in Siria rappresenta una sconfitta, che la diplomazia di Mosca sta cercando di tamponare. La destituzione del maggior alleato della Russia in Medio Oriente dai tempi dell’Unione Sovietica riduce notevolmente la proiezione geopolitica di Mosca nella regione. È un fatto che, dopo nove anni di presenza sul terreno, le forze russe, ridimensionate dopo l’invasione dell’Ucraina nel 2022, non hanno fornito un valido sostegno contro l’offensiva dei ribelli che in dieci giorni ha condotto alla caduta del raìs. Assad ha ricevuto asilo politico a Mosca dopo la sua fuga da Damasco. Ma negli ultimi giorni del suo governo, il Cremlino non gli ha offerto il sostegno che gli aveva consentito di mantenere la presa sulla Siria durante quasi un decennio di guerra civile. Molti osservatori, anche interni alla Russia, imputano al dispiegamento di forze verso l’Ucraina l’impossibilità per Mosca di sostenere adeguatamente Assad. L'illusione di preservare lo status quo Ruslan Pukhov, ricercatore del Centre for Analysis of Strategies and Technologies e a lungo consulente del ministero della Difesa, ha criticato sul quotidiano Kommersant la strategia di Putin: "Nel tentativo di minimizzare i costi in Siria, la Russia si è sempre più concentrata sul mantenimento di uno status quo instabile e inefficiente, preservando il regime di Assad in rovina e delegittimato senza alcuna prospettiva", ha affermato Pukhov in una critica aperta e franca e piuttosto condivisa tra gli osservatori. Priorità: conservare le basi Questo sostanziale disimpegno, sommato alla riduzione dell’impegno iraniano e di Hezbollah, indebolite da oltre un anno di confronto attivo con Israele, ha di fatto disarmato Assad, il cui regime negli anni nulla ha fatto per emanciparsi dalla tutela dei suoi alleati internazionali, preferendo consolidare le rendite di posizione della sua oligarchia, alimentando la corruzione diffusa e il contrabbando di narcotici come il captagon. L’offensiva ribelle ha colpito un regime eroso dall’interno che si è rapidamente sgretolato, e la Russia non è riuscita a fare molto di più che contenere le perdite. Del resto, sul fronte politico Assad non ha certamente accontentato Mosca rifiutando, nei mesi scorsi, l’ipotesi di un riavvicinamento alla Turchia di Recep Tayyip Erdogan in nome della ricerca di un accordo con i gruppi ribelli legati ad Ankara. In quest’ottica, la sconfitta di Assad è stata anche la sconfitta della strategia di Mosca di blindarne il regime per rafforzare la sua presenza in Siria che dura dagli Anni Settanta, imperniata sulla base navale di Tartus e quella aerea di Hmeimim, vicino Latakia. Oggi la priorità di Mosca è aprire un dialogo con i nuovi governanti siriani per salvare le sue basi: dopo la caduta di Aleppo, la diplomazia e i media russi vicini al Cremlino hanno cessato di chiamare i gruppi ribelli “terroristi”, definendoli “opposizione armata”, mentre dall’1 dicembre i raid dell’aviazione sui nemici del regime si sono sostanzialmente azzerati. “Il cambiamento di approccio della Russia sembra aver dato i primi frutti”, nota il Guardian, sottolineando che “a differenza dell'Iran, la cui ambasciata è stata saccheggiata a Damasco, la legazione di Mosca è rimasta intatta e le forze anti-Assad hanno comunicato di non aver l’obiettivo di penetrare nelle due basi militari russe”. Una sconfitta strategica e d'immagine Parliamo di un risultato minimo per la Russia, che ha cercato di definire come una sconfitta strategica e non una disfatta totale la caduta del regime di Assad. Ma la realtà è chiara: dopo mezzo secolo Mosca non è più la potenza di riferimento in Siria, e vista l’influenza sui nuovi attori in campo a Damasco, Ankara potrà esercitare maggiore influenza e pressione nel paese. Il colpo al prestigio di Mosca è netto. Bisogna capire se e quanto questo spingerà la Russia a consolidarsi con forza nel teatro ucraino, mostrandosi meno incline a compromessi per riscattare in Europa lo scacco subito in Medio Oriente.