America First vale anche per il dollaro: perché Trump minaccia i Brics

“America First”, il motto del presidente eletto Donald Trump, è una rivendicazione della volontà degli Usa di esercitare potere e influenza su scala globale prima ancora che un manifesto isolazionista. Trump intende questo esercizio di leadership come unilaterale e centrato su Washington, ostile al multilateralismo ma desideroso, al contempo, di consolidare le fondamenta del potere statunitense. Tra cui non si può sottovalutare il ruolo del dollaro come valuta di riferimento degli scambi globali. In vista del secondo insediamento Trump ha lanciato un monito per difendere l’egemonia valutaria americana. Il presidente eletto ha dichiarato che potrebbe imporre tariffe commerciali al 100% se i Paesi membri dei Brics creassero una nuova valuta comune per sfidare il ruolo globale del dollaro o punteranno su una divisa già esistente per soppiantare il biglietto verde. Trump sta spingendo, in vista del suo insediamento, per un’agenda economica fondata su un duro protezionismo commerciale, la spinta alla massiccia re-industrializzazione degli Stati Uniti e il rilancio della strategia di guida dei mercati energetici tradizionali, come quelli del gas e del petrolio. A ciò si aggiungerà una proposta di rinnovo della riforma fiscale del 2017 che si ritiene possa costare, nei prossimi dieci anni, fino a 3mila miliardi di dollari, in larga parte finanziati a debito. Il peso geopolitico del dollaro Per tutte queste politiche Trump ha bisogno di un dollaro forte: il primato del biglietto verde offre a Washington vantaggi concreti come la riduzione dei costi d’indebitamento e il ruolo dei buoni del Tesoro Usa come bene d’investimento appetibile per tutta la finanza globale, ma anche un indubbio fattore di condizionamento geopolitico. L’uso del dollaro come strumento di pagamento è stato utilizzato da Washington come leva per potenziare l’effetto delle sanzioni contro i Paesi rivali, come Russia e Iran, escludendoli dal sistema dei pagamenti internazionali, o per giustificare la proiezione della giustizia Usa su aziende e entità straniere, come successo nel 2018 con la “guerra” all’azienda di telefonia cinese Huawei. Questa posizione di forza è da tempo maldigerita dal Sud Globale e dai Paesi rivali dell’Occidente a guida Usa, in particolare dal presidente russo Vladimir Putin. Parlando al recente summit dei Brics di Kazan il presidente russo ha criticato la preminenza americana nella finanza affermando che "il dollaro viene usato come arma". Molto critico è anche il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva che chiede più spazio per il Sud Globale nelle istituzioni finanziarie globali a guida Usa e di recente ha proposto di creare una valuta comune in tutta l’America Latina per ridurre l’esposizione al dollaro. La sfida della valuta Brics? È ancora lontana Ad oggi, però, una sfida dei Brics all’egemonia valutaria Usa appare remota: gli Stati Uniti sono stabili economicamente, buoni pagatori, strutturalmente capaci di far fronte a shock recessivi e godono di un sistema a cui fanno riferimento gli investitori internazionali. "Fondamentalmente, se si intende creare una propria forma di denaro, tale desiderabilità è commisurata alla forza economica e all'integrità dell'emittente. I paesi Brics non hanno il tipo di istituzioni che ispirano fiducia globale per convincere gli operatori che si tratta di un'alternativa soddisfacente al dollaro", ha affermato Mark Weinstock, economista della Pace University. Questo non esclude, però, che le economie emergenti possano puntare a un disaccoppiamento settoriale dal biglietto verde. Russia e Cina pensano da tempo a regolare in yuan gli scambi energetici, mentre Pechino usa la sua divisa per prezzare le forniture di petrolio dall’Arabia Saudita. E, un altro scenario dove la sfida agli Usa potrebbe farsi sentire è quello dell’espansione dei diritti speciali di prelievo, l’unità di conto del Fmi, a un ruolo maggiore delle valute dei Paesi non occidentali. La retorica di Trump indebolisce gli Usa? Parliamo di proposte che aprono a cambiamenti strutturali difficilmente in grado di materializzarsi in breve termine. Ma la mossa di Trump, che sulle tariffe vuole costruire una parte della sua politica economica, lascia presagire un sostanziale timore per il materializzarsi di scenari del genere sul medio-lungo periodo. Dichiararsi pronti a imporre tariffe tanto alte in un contesto che vede i Brics lontani dagli scenari ipotizzati da Trump "non è una bella immagine, perché indirettamente eleva l'importanza di una non-minaccia e suggerisce una mancanza di fiducia nel dollaro", ha scritto su X Brad Setser, fellow del Council of Foreign Relations. Al contempo, reagire sul piano commerciale per una manovra valutaria aprirebbe a una rottura di diverse catene di fornitura, da quelle industriali con la Cina agli approvvigionamenti di commodities fondamentali come il cacao, la soia e il caffè brasiliani e l’oro e i diamanti sudafricani. Tutto questo senza pensare agli effetti recessivi nazionali e globali che tariffe americane tanto alte provocherebbero. In definitiva, la retorica del presidente eletto, come l’intero discorso sui dazi da usare come arma, sembra mettere in mostra i punti di debolezza del sistema Usa piuttosto che quelli di forza. Esattamente il contrario di quanto auspica l’America First.

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