Hua Hsu: "Racconto gli Usa degli anni '90 e le occasioni perse della mia generazione"

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Ludovica Passeri

Ludovica Passeri

Il vincitore del Pulitzer 2023 con "Stay true" ci porta in un viaggio nella memoria tra musica alternativa e il sogno infranto del multiculturalismo, ma il suo memoir è anche un manuale per capire l'universo complesso degli asiatici-americani, un elettorato che diventa sempre più decisivo

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Mentre Max Pezzali ad Assago canta “Nord Sud Ovest Est e forse quel che cerco neanche c’è” con lo stadio pieno, i quotidiani titolano “È di nuovo il bipolarismo” e tornano di moda pantaloni a vita bassa e crop top, con un perfetto tempismo viene presentato a Milano Stay true - Tracce di un’amicizia di Hua Hsu. Dopo aver vinto il Pulitzer per l’autobiografia nel 2023 ed essere stato inserito nella classifica del New York Times dei 100 libri più belli del XXI secoloStay true è arrivato in Italia grazie al lavoro di ricerca e traduzione di NR Edizioni: un memoir che è al tempo stesso trattato di archeologia degli anni Novanta. Sono i nineties americani, anzi californiani, visti attraverso gli occhi di un ragazzo di origine asiatica, ma nel racconto di Hsu attraverso due linguaggi universali, quello della musica e quello dell'amicizia, potrà ritrovarsi anche un quarantenne cresciuto a Cernusco sul Naviglio e folgorato, come tanti in quegli anni, dalla alternative culture.

La prosa è sfumata, le canzoni fanno da sottofondo senza essere mai assordanti, nei volti quasi evanescenti dei personaggi si finisce per riconoscere anche i tratti dei propri amici di una vita. Quella di Hsu è una poetica del vago ed indefinito, una nebbia nostalgica che avvolge tutto e si dirada solo quando fanno irruzione alcuni fatti epocali che riportano il lettore nella Storia: la morte di Kurt Cobain, l’outsider in cui per uno strano paradosso si identificò un'intera generazione, è stato uno di questi. Hsu in Stay True è scrittore - perché senza sapere di esserlo o di volerlo diventare si è lasciato guidare dalla necessità di scrivere; critico musicale, come testimonia anche la sua attività giornalistica; politologo - la sua laurea a Berkeley parla per lui; e storico - ha un dottorato ad Harvard. Se si vuole capire qualcosa del mondo complesso della comunità asiatico-americana, soprattutto in questi mesi concitati di preparazione alle elezioni di novembre, lasciate da parte i saggi e immergetevi nel flusso dei ricordi di questo ragazzo degli anni Novanta.

 

 

Quando è cominciato il viaggio di Stay true?

Ho cominciato a scrivere quello che sarebbe diventato Stay true nel 1998. Ero uno studente del college di 21 anni: un mio caro amico, Ken, venne ucciso. Il mio modo di affrontare quella morte e di sottrarmi al dolore è stato la scrittura. Ho cominciato a mettere nero su bianco i ricordi, le nostre battute, a raccogliere ritagli e appunti su di lui. Su Ken ho progressivamente proiettato tutto ciò che di buono e bello c'è nel mondo. Nel 2019 finalmente mi sono seduto e ho pensato per la prima volta a quel materiale raccolto come a qualcosa di unitario, come a un unico libro. Stay true racconta la mia amicizia con Ken, racconta di noi due, ragazzi americani di origine asiatica negli anni '90.




Quanto le sue origini hanno influenzato la sua vita?

Per capire le cose che avevamo in comune io e Ken, ma anche i nostri conflitti, ho avuto bisogno di ricostruire la storia della mia famiglia e le ragioni che hanno portato tante persone a emigrare dall'Asia agli Stati Uniti. Nel mio libro c'è un elemento centrale: il fatto che i miei genitori abbiano pensato esclusivamente alla sussistenza, a guadagnarsi il pane, mentre io, in quanto seconda generazione, ho avuto il privilegio di poter preoccuparmi di altro, di raccontare la nostra storia, di scrivere: “La prima generazione pensa alla sopravvivenza, le successive raccontano le storie”. Analizzo il mio background taiwanese. Quando ero ragazzo, non mi rendevo conto che l’isola da cui proveniva la mia famiglia fosse così centrale, all’epoca già era in atto l'exploit tecnologico, e che lo sarebbe diventata sempre di più per gli equilibri politici internazionali. Spero che i leader prendano sul serio la questione di Taiwan.

 

Cosa ne è stato del sogno del multiculturalismo?

Quando mi sono formato negli anni Ottanta e Novanta, e di questo parlo molto nel libro, negli Stati Uniti d'America c'era una vera fascinazione per il multiculturalismo. Ma penso che quello degli anni Ottanta e Novanta fosse un multiculturalismo che definirei più radicale. Era estremamente dirompente il fatto che non ci fossero più solo persone bianche nelle pubblicità della tv e nei film. Io e i miei amici eravamo affascinati da tutto questo, pensavamo che questo multiculturalismo potesse solo espandersi. 

 

E poi cos’è successo?

Oggi ritengo che si vedano più persone di colori diversi ma è solo per vendere prodotti. In un certo senso il multiculturalismo ha vinto ma è diventato un esercizio vuoto. I miei studenti - insegno al Bard College - insistono molto sul fatto che la "rappresentazione", quindi l'immagine, non debba e non possa essere l'unico obiettivo. Lo hanno capito. Ci deve essere un reale impegno politico dietro le ambizioni multiculturaliste.

 

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Ci si avvicina alle elezioni negli Usa. E si parla molto del ruolo che potranno svolgere gli asiatici-americani. Che idea si è fatto?

Sono elezioni cruciali non solo per gli Usa ma per il mondo intero, questo purtroppo è l'effetto che fa l'America. Andranno alle urne tantissimi asiatici-americani. Parliamo di circa il 6% della popolazione statunitense. E rispetto a quando ero piccolo, è cambiato il panorama. Oggi questi elettori sono concentrati in Stati decisivi, come Georgia, North Carolina, Nevada. Quando ero piccolo, la maggioranza era invece in California, New York, Texas: Stati in cui il loro voto non era decisivo. Questo cambiamento si è sentito molto negli ultimi anni, non tanto in termini di rappresentanza  ma soprattutto per gli sforzi portati avanti dai politici di diversi schieramenti di entrare in contatto con questa comunità e di portarla dalla propria parte. Si sono fatti più tentativi, sia a destra sia a sinistra, di intercettarli. 



Che scenario si profila?

Credo che, con la crescita della popolazione di asiatici-americani negli swing states (gli Stati in bilico, n.d.r.), sempre più politici si rivolgeranno direttamente a questo elettorato. Vedremo cosa succederà a novembre. Quando ero un bambino, nessuno si preoccupava di noi e ora, 30 anni dopo, è interessante osservare questa mobilitazione verso la nostra comunità.

 

 

Lei ha studiato a Berkeley e oggi insegna al Bard College. Cosa pensa delle proteste pro-Palestina che hanno preso piede nei campus americani?

Berkeley è un personaggio centrale nel libro perché gran parte di quello che sono si è costruito lì, durante le lezioni ma anche nella lotta e nelle proteste che abbiamo portato avanti. Non riesco a non simpatizzare con le battaglie dei miei studenti, con il modo in cui vedono il mondo e in cui vorrebbero cambiarlo. Mi ispira molto vedere quello che stanno facendo, non solo negli Usa.  La loro analisi è più sofisticata di quella che avevamo affinato noi negli anni Novanta. Vedo molta continuità con il movimento studentesco dei Sixties.

 

E sul fronte della guerra dei campus tra woke e anti-woke?

Non penso ci sia una dicotomia tra woke e anti-woke, penso solo che ci siano persone felici di essere cattive e persone non ciniche. Mi sembra più semplice rispetto alle analisi che leggo sulle colonne dei grandi giornali.

 

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Cosa ne è stato dei ragazzi degli anni Novanta?

Adesso sono padre, un adulto. Molte delle persone con cui ho frequentato il college sono diventate dirigenti di impresa, qualcuno è entrato in politica, nel sistema. Questo mi fa riflettere sui valori che abbiamo interiorizzato negli anni Novanta. Mi chiedo se anche gli altri li abbiano interiorizzati come ho fatto io. Penso di no. La controcultura anni Novanta, quel sentimento anti-establishment, la sensibilità anticapitalista, la paura che avevamo di svenderci, di essere commerciali sono stati effimeri e non si sono tradotti in scelte politiche concrete. E poi c’è una battuta che si fa spesso da noi negli Usa: si scherza sul fatto che nessuno della mia età sia diventato un politico affermato, perché al Congresso ci sono solo baby boomer o millennial. Della generazione X dei nati negli anni Settanta non c’è quasi traccia.

 

Sta già pensando a un nuovo libro?

Stay true è stato un viaggio lunghissimo. Non ci ho messo 20 anni a scriverlo, ma per 20 anni ho pensato solo a questo libro. Il fatto di averlo finito mi fa sentire di non avere più niente da scrivere, più nulla da dire. Ho in cantiere un nuovo lavoro sulla musica, ma penso che non troverò mai la stessa motivazione, è stato nella mia testa troppo a lungo.

 

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