Zaki, Mona Seif: “Patrick può contare sul sostegno di tanti italiani"

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Tiziana Prezzo

La sorella del più famoso attivista egiziano, Alaa Abd-El Fatah, in carcere da 9 anni, denuncia il livello di violenza “senza precedenti” del regime di al-Sisi ma anche la complicità di molti governi occidentali (la corrispondente)

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LONDRA -Mona Seif, 36 anni, doppia cittadinanza, mi fa un sorriso dolce quando le ricordo che il fratello, Alaa Abd-El Fattah, il più famoso attivista dai tempi della rivoluzione di piazza Tahrir, è conosciuto in Italia come il “Gramsci d’Egitto”. “Il paragone lusinga, ma spero sinceramente finisca per lui in un altro modo”, prova a scherzare.  Il suo cuore è in realtà pieno di angoscia. Ci troviamo in un gelido e buio pomeriggio di metà dicembre all’ingresso del Ministero degli Esteri britannico, a pochi passi da dove abita e lavora anche il primo ministro, Rishi Sunak. Mona è qui, insieme a un gruppuscolo di attivisti, per fare pressioni sul governo di Londra, che, a suo dire, per il fratello che languisce in prigione da 9 anni ha fatto finora poco o nulla.

Nessun passo avanti significativo

Di Alaa si è parlato molto a inizio di Cop27, che si è tenuta a Sharm El Sheik lo scorso novembre, perché dopo lo sciopero della fame aveva cominciato anche un pericolosissimo sciopero della sete. “Mia madre l’ha visto un paio di giorni fa e sta meglio. Gli abbiamo detto di dare al suo corpo tempo di recuperare prima di intentare altre forme di protesta. Chiedo a Mona che cosa prova all’idea che nonostante i molteplici tentativi fatti la situazione continui a non sbloccarsi. 

“Sono molto frustrata ma non ho mai riposto le mie speranze nei governi. Neanche nel mio (ed è per questo che sono qui ora) “– spiega –. “Credo nelle persone e la realtà è che durante Cop27 molte più persone hanno conosciuto la situazione di Alaa e di tutti coloro che stanno languendo nelle prigioni di al-Sisi in Egitto e spero che continueranno ad aiutarci finché non saranno tutti liberi”.  

Un livello di violenza senza precedenti

Le chiedo se può fare un quadro generale della situazione dei diritti umani nel Paese d’origine. E la sua risposta non lascia spazio a interpretazioni: “E’ molto difficile fornire un quadro complessivo, ma la verità è che la situazione non è mai stata così brutta come ora sotto il regime di al-Sisi. Stiamo parlando di decine di migliaia di prigionieri politici, che sono stati condannati sine die con sentenze arbitrarie, di un numero record di condanne a morte, uccisioni extragiudiziarie… La tortura è sistematica e strutturale all’interno del governo egiziano. I media indipendenti sono stati bloccati, i giornalisti sono stati messi in prigione o costretti all’esilio o continuano ad essere nel mirino di media affiliati al governo. Non abbiamo mai sperimentato prima una tale combinazione di diversi sistemi di oppressione e anche un uso della violenza così diffusa, non solo contro gli attivisti ma anche contro persone di qualsiasi tipo.

Zaki almeno in parte protetto dall’attenzione degli italiani

Le chiedo cosa pensa poi del caso di Patrick Zaki, ancora bloccato in Egitto. “Credo sinceramente e profondamente che il sostegno che Patrick Zaki riceve da così tanti italiani che tengono il suo caso vivo aumenti il suo livello di protezione e spinga verso l’ottenimento di un certo livello di giustizia e la restituzione di alcuni dei suoi diritti”, mi risponde aggiungendo: “Penso anche che il suo sia un chiaro esempio di come questo regime prenda di mira anche gli accademici. Ci sono tantissimi ricercatori che sono finiti in prigione semplicemente perché facevano il loro lavoro. Così come accade per avvocati, giornalisti e via dicendo. Di nuovo: sappiamo di Patrick perché il suo caso è stato portato all’attenzione dai suoi colleghi, dalla sua università, e si è diffusa la notizia in tutta Italia. Di questo abbiamo bisogno per tutti: non solo per Patrick, per Alaa o per Ahmed Douma. Bisogna che ci sia un gruppo di pressione per ogni causa, così che a un certo punto tutti, ovunque, conoscano la realtà del regime di al-Sisi e ci aiutino almeno a mettere un freno ai suoi costanti crimini”. 

“Governi occidentali complici del regime di al-Sisi

La stoccata finale, Mona la riserva alla complicità di tanti governi occidentali, che spesso, per interessi economici, sono disposti a chiudere anche entrambi gli occhi: “Più persone sono a conoscenza delle atrocità compiute e più ci aiuteranno a contrastarle e alla fine i governi saranno costretti a prendere posizione. Perché dobbiamo tenere presente che se il regime di al-Sisi è andato avanti indisturbato con i suoi crimini è perché ha potuto contare sul sostegno di governi stranieri”.

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