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Kabul, 4 anni senza pioggia: l’Afghanistan travolto dalla crisi climatica

Mondo

Gianluca Ales

©Getty

Il Paese deve misurarsi con una delle più gravi siccità che abbia mai visto. Le coltivazioni sono distrutte, i bacini inariditi e la popolazione comincia ad avere difficoltà a nutrirsi adeguatamente, denunciano le ONG

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KABUL - Il professore ha difficoltà a dirlo, ma alla fine deve ammetterlo: l’Afghanistan da solo non può farcela. Mujib Rahman Ahmadzay insegna economia ambientale all’Università di Kabul, e certamente per un accademico la vita non deve essere facile sotto gli Studenti del Corano. E così parla di “responsabilità mondiali”, di “azioni globali”, di “innocenza dell’Afghanistan”, visto che non esiste una vera industria nazionale e i principali inquinatori del pianeta come Cina India e Pakistan circondano il suo paese.

Le responsabilità del califfato

Tutto vero. E certamente i talebani non hanno la colpa per i 4 anni di siccità. Quello che però il professor Ahmadzay è riluttante ad ammettere è che prima, con la coalizione internazionale, la situazione era molto meno drammatica.

Oggi, in Afghanistan, secondo il recente rapporto pubblicato da Save the Children, la crisi climatica è diventata una crisi alimentare con un grave impatto sociale. Molti bambini hanno dichiarato infatti di non riuscire a consumare pasti regolari, di andare a dormire affamati. Molti hanno abbandonato la scuola e lavorano in condizioni inumane per cercare di procacciarsi il cibo. C’è stato – tra l’altro - un incremento impressionante dei matrimoni precoci proprio per fare fronte alle difficoltà economiche. E, drammaticamente ovvio, l’88% erano bambine.

Il punto è che la situazione è drammatica, ma che lo stato non è in grado di intervenire.

L’ex lago di cristallo

La strada che porta al lago – anzi all’ex lago – di Qaragah, poco fuori Kabul, è un susseguirsi desolante di campi aridi e sterpaglie, botteghe con i padroni addormentati con indolenza di fronte alla porta, bambini che mendicano agli incroci, cani esausti che si riparano all’ombra.

La siccità si vede, e si percepisce perfino nell’aria secca che si respira a fatica, e sembra perfino inaridire le narici.

Il bacino artificiale di Qaragah era una meta turistica. Noto per le sue acque cristalline e per i pesci d’acqua dolce che venivano cotti al barbecue, era e un riparo fresco per l’estate, dove i cittadini di Kabul organizzavano picnic e gite su buffe imbarcazioni a forma di cigno, come una sorta di pedalò. Il gestore del piccolo imbarco e del bar sul lago guarda la pozza di acqua torbida in cui un paio di coppie si avventurano a bordo dei cigni colorati. C’è una sorta di ostinazione in quel gesto, una disperata ricerca di normalità in un posto che non ha nulla di normale, triste come un luna park abbandonato.

Sì, il sentimento che si respira è tristezza, e rassegnazione. In quattro anni, ci dice l’anziano gestore, le acque si sono ritirate a tal punto che ormai solo un miracolo può salvare il lago. La diga si erge per una decina di metri, inutile e secca come il bacino che presidia.

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Il villaggio verde dei Pashtun

Una situazione peggiore si trova sulla strada per Bagram, nel distretto di Dae Sabz, che in pashto significa “villaggio verde”. E non potrebbe essere più crudelmente ironico, visto che i campi, un tempo lussureggianti e fertili, sono ridotti a distese di polvere gialla, impalpabile come talco, che si solleva al passaggio delle nostre vetture ed entra nei finestrini saturando l’abitacolo.

Abbiamo appuntamento con un coltivatore, Mohamed, che ci mostra i suoi appezzamenti. È come entrare in un’oasi: il verde improvviso spicca abbagliante in mezzo a quella distesa che varia monotona nelle infinite sfumature tra il giallo e l’ocra. Quelli che ci mostra sono 6 ettari di vigne, con grappoli di uva gialla che pendono maturi. Non verranno raccolti, ci spiega, perché sono inutilizzabili. Sono così dolci che gli insetti li divoreranno in pochi giorni, neanche il tempo di raccoglierla. Ce la fa assaggiare e il suo sapore stordisce quasi per quanto è forte.

La soluzione, sostiene il contadino, sarebbe avere più generatori che pompino l’acqua dai pozzi. Nel suolo ci sono molte sorgenti, ad appena 20 metri.

Basterebbe poco, insomma, ma il Califfato dei talebani non fa o, quel che è peggio, non sa fare.

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