Tiziana Prezzo, 10 anni fa inviata sul luogo dell'attacco terroristico, ripercorre i momenti chiave di quella che rimane la pagina più nera della storia recente del Paese scandinavo. Settantasette persone furono ammazzate da Anders Behring Breivik, estremista di destra con dichiarate simpatie neonaziste
Quando, dieci anni fa, il 22 luglio 2011, cominciarono ad arrivare le prime notizie di una bomba e di morti nel cuore della placida Oslo, il primo pensiero fu, per molti, che il terrorista doveva essere straniero ed estraneo rispetto a una nazione che non chiude le porte di casa a chiave e non conosce la pena dell’ergastolo per chi si macchia dei reati più gravi.
Il nemico interno
E invece no: il nemico era cresciuto in seno a quella stessa società, come una malattia silente di cui improvvisamente, con uno choc immenso, si scopre il nome: Anders Behring Breivik, classe 1979. Lui, e solo lui, si è reso responsabile della morte di 77 persone, in gran parte giovanissime e con l’unica colpa di avere tanti ideali e una passione per la politica. Il primo attacco è alle 15.25 del pomeriggio. Un’autobomba esplode davanti al palazzo che ospita l’ufficio del primo ministro Jens Stoltenberg: otto persone perdono la vita, 209 rimangono ferite, di cui dodici gravemente.
Uccisi con i proiettili con cui si abbattono gli elefanti
Ma la furia omicida di Breivik non si placa, anzi: si esalta. In meno di due ore raggiunge l’isola di Utoya, dove è in corso un campus organizzato dalla sezione giovanile del Partito Laburista Norvegese. E lì, uno dopo l’altro, abbatte 69 ragazzi, a colpi di fucile e vestito da poliziotto. “Ha usato munizioni utilizzate per abbattere gli elefanti”, racconteranno i colleghi norvegesi il giorno dopo: le pallottole dum dum, munizioni vietate dal codice di guerra. Non un semplice dettaglio macabro, ma la prova più esplicita di una lucida volontà di non lasciare alcuno scampo. Ha continuato a sparare, in maniera lenta e implacabile, una vittima al minuto, Breivik, finché non è arrivata la polizia. Nei giorni successivi emergono in rete le sue simpatie neonaziste. In un testo di 1518 pagine si definisce "salvatore del cristianesimo".
La perdita dell'innocenza
Il 22 luglio 2011 è il giorno in cui la Norvegia ha perso la sua innocenza, ma non i principi su cui si fonda. Inizialmente ritenuto affetto da schizofrenia paranoide, Breivik è stato dichiarato "sano di mente e quindi penalmente responsabile" da una controperizia. Il 24 agosto 2012 è condannato a ventuno anni di carcere, pena massima prevista dalla legge norvegese. Un carcere di massima sicurezza, il suo, ma molto diverso da quelli italiani. Ha una cella di 30 metri quadrati, pulita e ordinata, con televisione e play station, e può accedere a una palestra. Ciononostante il 15 marzo 2016 ha intentato causa contro il sistema carcerario norvegese riguardo a una presunta violazione dei suoi diritti umani: gli sarebbe stato portato del caffè freddo, ma secondo alcune fonti sarebbe stata solo una strategia per poter usare un nuovo processo come piattaforma per diffondere le proprie convinzioni politiche. Nel luglio 2015 ha iniziato un corso di scienze politiche all'Università di Oslo.
Una ferita sempre aperta
A distanza di 10 anni, Utoya è una ferita ancora aperta, con una generazione di trentenni segnata dal trauma collettivo. I superstiti hanno sviluppato diverse forme di stress post traumatico e fobie difficili da sedare. Oltre a quel senso di colpa di chi è sopravvissuto che può risultare letale anche molti anni dopo.