I dimenticati dall'Europa

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Monica Napoli

Il racconto della situazione al confine tra Bosnia e Croazia dove si trovano bloccati migliaia di migranti. Arrivano in maggioranza dal Pakistan, dall'Afghanistan e dal Bangladesh

Dormono nei boschi, nei capannoni e in sistemazioni improvvisate, alcuni in vecchi autobus abbandonati, si lavano nei laghi e nei ruscelli, camminano nella neve con infradito o sandali, i più fortunati avvolti in una coperta. Sono le migliaia di persone bloccate al confine tra Bosnia e Croazia: uomini, ragazzi e famiglie, arrivano in maggioranza dal Pakistan, Afghanistan e Bangladesh.

Lipa

Per arrivare al campo di Lipa si devono percorrere più di due km su una strada sterrata, che d’inverno diventa una lastra di ghiaccio. 30 km da Bihac, cittadina più vicina, a Lipa è stata allestita la tendopoli di emergenza per dare una sistemazione alle migliaia di persone rimaste senza alloggio dopo che il campo per migranti è andato distrutto, lo scorso 23 dicembre.

 

Un campo “nato male” secondo chi lavora nelle ONG che operano sul campo, costruito per l’emergenza covid lo scorso aprile, gestito dall’OIM che aveva deciso di chiuderlo. Con i centri di Sarajevo pieni e le proteste della cittadinanza, supportate dalle autorità locali, per l’apertura del centro di Bihac, il governo bosniaco ha deciso di tenere le persone a Lipa, nonostante le temperature sotto lo zero e la neve alta. “Se hanno bisogno di acquistare qualcosa e devono raggiungere il centro della città – racconta Fabien della ONG NONAMEKITCHEN – sono costretti a percorrere quattro o cinque ore a piedi e devono farlo al massimo in due altrimenti vengono immediatamente fermati e riportati indietro”.

 

Nelle tende allestite dall’Esercito sono entrate finora circa 900 persone, quaranta persone in ogni tenda che sì è riscaldata, ci raccontano, ma la notte non basta considerato che le temperature calano fino a oltre -10. I bagni chimici sono allineati all’ingresso del campo, distanti dalle tende e l’acqua è un bene raro.

A Lipa, cibo e beni primari vengono portati quasi quotidianamente da organizzazioni non governative, associazioni di volontariato e dalla Croce Rossa. Ai giornalisti, dopo i primi giorni, è stato vietato di entrare nella tendopoli, la polizia non lascia oltrepassare un determinato punto. Si vedono le tende ricoperte dalla neve e le file di persone, centinaia, che attendono per una coperta, per un pasto caldo e i loro piedi quasi nudi nella neve.  “Quasi tutti ci chiedono perché, come mai sono costretti a vivere in queste condizioni” ci racconta Roberta dell’ong italiana, Ispia che opera anche a Lipa e a Sedra dove sono state alloggiate le famiglie e i minori non accompagnati. 400 le persone presenti al momento nel vecchio hotel riadattato, tra loro 50 minori non accompagnati. “L’atmosfera lì è decisamente diversa - continua Tatjiana della stessa Ong - giochiamo con i bambini e aiutiamo le donne, poi vieni a Lipa ed è un disastro”.

 

In realtà, qualche minore lo incontriamo anche a Lipa, dormono in un capannone vicino “perché è più caldo”. Quando arrivano i volontari c’è sempre qualcuno che attende per chiedere loro un consulto medico, per fare da interprete ad un connazionale più anziano o per informarsi su cosa accadrà nei prossimi giorni. I volontari sono, probabilmente, le poche persone che incontrano e che non indossano una divisa nell’arco di decine di km.

 

Tra qualche settimana inizieranno i lavori per un nuovo campo che ospiterà 1.500 persone, l’annuncio è stato dato dal ministro della Sicurezza bosniaco dopo aver visitato la tendopoli con il capo della delegazione dell’Unione Europea. Il luogo, Lipa, è stato scelto dal governo tenuto conto delle insistenze e proteste delle autorità locali e della cittadinanza che non intende cedere sulla riapertura dei centri, ristrutturati ad hoc. Con il rischio di costruire un non luogo per migliaia di persone alle porte dell’Europa.

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Velika Kladuša

Camminando tra i boschi, sulla linea di confine tra Bosnia e Croazia, si incontrano diverse tendopoli allestite nel tempo da chi tenta, da lì, di attraversare la frontiera. Teli di plastica a coprire letti improvvisati, cerchioni di vecchie auto per accendere il fuoco, rami di alberi per appendere i vestiti e la speranza di superare un altro inverno.

A Velika Kladusa, una cinquantina di km da Bihac, c’è una di queste tendopoli, in questo momento ci vivono una sessantina di persone ma negli anni ce ne sono state qui fino a 500. Sono tutti di origine bengalese e tutti hanno tentato almeno quattro o cinque volte di attraversare il confine con la Croazia.

 

IS Sik è un ingegnere meccanico, in Bangladesh ha lasciato la famiglia e la sua intenzione resta quella di raggiungere l’Europa, i problemi con il governo del suo Paese di origine lo hanno costretto a lasciare tutto. “Qui sono morti i diritti umani, qui non ci sono più diritti. Ci ho provato cinque volte a passare – ci racconta – e ogni volta mi hanno picchiato violentemente, mi hanno tolto denaro e cellulare, trattenuto per poi rispedirmi indietro”. Sul bordo della strada, un uomo si lava nel lago poco lontano, tra la neve e nell’acqua ghiacciata. Dopo lava i suoi abiti e ci guarda con l’aria di chi non vuole essere rivolto alcuna domanda. “Lo fa ogni mattina – confida l’amico – nonostante il freddo e la neve. In realtà noi stiamo qui e non a Lipa perché qui fa un pochino meno freddo”. Guardo la temperatura, la differenza è più o meno di due gradi. 

 

A portare i beni di prima necessità sono le Ong, altrimenti sarebbero senza nessun aiuto. Non c’è l’acqua corrente né l’energia elettrica, non ci sono i servizi primari. Cosi come a dare un supporto medico. Per caso incontriamo un medico tedesco, è arrivato una settimana prima a Bihac, dopo aver visto in Tv le immagini delle persone lasciate al freddo. Cerca le tende nei boschi per offrire il suo supporto professionale. Difficoltà respiratorie, polmonari e problemi di stomaco le patologie che maggiormente sta riscontrando. Ma soprattutto “lo sconcerto e la stanchezza per una situazione umanamente insostenibile”.

 

Anche qui come a Bihac, la popolazione vive male la presenza dei profughi fino al punto di riuscire a far vietare loro l’accesso ai mezzi pubblici, se non in determinati orari e per determinate tratte. In pratica, possono viaggiare di notte e solo per alcuni percorsi. “Ne ho viste tante da quando sono qui – continua a raccontarci Fabien – ma vedere alla fermata degli autobus i mezzi differenziati mi ha scioccato. Non pensavo fosse possibile”.

 

La questione non interessa solo la zona nord occidentale della Bosnia Erzegovina, anche in altre città come Sarajevo, Zenica, Tuzla, Visoko ci sono persone costrette a vivere per strada, nei vecchi edifici abbandonati o nei boschi. Attualmente, in Bosnia Erzegovina, secondo le stime dell’Organizzazione internazionale delle migrazioni, ci sono più di 8.000 persone migranti, quasi 4000 senza una dimora.

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