Risultato scontato, ma rischio astensione: l'Iran al voto per le elezioni parlamentari

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Daniele Brunetti

In palio 290 seggi del Majlis, l'Assemblea legislativa della Repubblica islamica (Getty Images)

Il 21 febbraio il Paese è chiamato alle urne in un clima teso a seguito dell'uccisione del generale Soleimani. Lo schieramento dei conservatori e degli ultraconservatori si prepara a una larga vittoria anche grazie all’esclusione di gran parte dei candidati riformisti

"La gente deve stare attenta a scegliere i candidati, alcuni di loro sono diventati schiavi e schiave degli americani". Con queste parole la Guida Suprema dell’Iran Ali Khamenei ha invitato gli iraniani ad andare a votare il prossimo 21 febbraio per rinnovare il Majlis (l'Assemblea legislativa della Repubblica islamica), ricordando che recarsi alle urne "è un dovere religioso" per sconfiggere i "complotti malvagi" degli Stati Uniti e di Israele. L'appello, che è stato solo l’ultimo di una lunga serie, è volto a scongiurare l’unica vera insidia di queste elezioni: l’astensionismo. L’esito della tornata, che arriva in un momento di grande tensione a seguito dell'uccisione del generale Qassem Soleimani e dell'abbattimento del Boeing ucraino da parte della contraerea iraniana, è infatti pressoché scontato. I partiti conservatori e ultraconservatori, che soffiano sul fuoco del risentimento nei confronti degli Stati Uniti, sono dati per sicuri vincitori, anche grazie all’esclusione della maggior parte degli aspiranti candidati del fronte riformista.

L’esclusione dei candidati e il crollo di consensi di Rohani

Il Consiglio dei Guardiani ha escluso 6.850 candidati su circa 14mila che si erano presentati. L’organo preposto al vaglio delle candidature, di fatto controllato dalla Guida Suprema Ali Khamenei, ha addotto mancanze nei requisiti previsti dalla legge come, ad esempio, "problemi finanziari", espressione che si riferisce ad accuse di frode o appropriazione indebita, lacune religiose o scarsa fedeltà alla Repubblica Islamica. Esclusi dalla tornata anche una ottantina di deputati dell'attuale legislatura, e migliaia di candidati riformisti che sono rimasti senza rappresentanti di peso in diverse città. Il destino della competizione elettorale, quindi, è piuttosto segnato anche perché i partiti moderati e riformisti, che sostengono il presidente 'centrista' Hassan Rohani, hanno subito un vertiginoso calo di consenso dopo che il programma di distensione con l'Occidente e le promesse di liberalizzazione interna sono rimaste lettera morta. Il naufragio dell’accordo sul nucleare, fortemente voluto dal presidente, e il peso quasi insostenibile delle sanzioni statunitensi hanno portato infatti l’inflazione e la disoccupazione alle stelle. Questa situazione, secondo diversi osservatori, avrebbe spinto molti elettori alla rassegnazione con il rischio fondato di un crollo dell’affluenza. Ipotesi che, se si dovesse verificare con percentuali molto basse, minerebbe la legittimità del nuovo Parlamento.

Un sistema duale in cui prevale quello religioso

Il 21 febbraio sono chiamati alle urne circa 58 milioni gli elettori per quelle che saranno le undicesime elezioni parlamentari della Repubblica islamica di Iran. I seggi a disposizione saranno 290, 5 dei quali sono riservati a minoranze etniche e religiose. Il Parlamento monocamerale detiene il potere legislativo ed è inserito nell’ordinamento duale che vige nel Paese dalla rivoluzione del 1979. L'Iran è infatti una repubblica islamica, presidenziale e teocratica nella quale una parte delle istituzioni, il Parlamento e il presidente, sono eletti dal popolo, mentre dall’altra esistono una serie di organi religiosi che hanno il compito di controllare l'operato delle istituzioni in base alla loro fedeltà al Corano e ai principi dell'Islam. Al vertice del sistema costituzionale e politico c’è la Guida Suprema che ha potere di veto e di indirizzo anche sul presidente, che è a capo dell’esecutivo.

Astensionismo

La campagna elettorale, che è durata solo una settimana e si è chiusa il 19 febbraio, si è svolta decisamente in sordina, al contrario del grande fermento che si respirava a ridosso delle elezioni che hanno portato alla vittoria per due mandati del presidente Rohani. Tra le promesse di tutti i gruppi politici (in Iran non esistono veri e propri partiti) ci sono state proposte per risollevare il Paese dalla crisi economica scatenata dalle sanzioni americane e una speculazione, più o meno marcata, sulle tensioni successive all’assassinio del Generale Soleaimani. Per quanto riguarda l’affluenza il portavoce del Consiglio dei Guardiani, Abbas Ali Kadkhodaei, nei giorni scorsi, ha dichiarato che in Iran non è mai stata sotto il 50% e mi aspetto che non sia da meno in queste elezioni". In realtà, secondo un recente sondaggio dell'Istituto di Ricerca e Studi sociali dell'Università di Teheran, reso pubblico da Radio Farda, nella capitale potrebbe recarsi alle urne solo il 24,2% degli aventi diritto.

'Parlamento di guerra'

In questo contesto, l’obiettivo del blocco composto dai conservatori e dagli ultraconservatori è quello di scalzare i riformisti come partito di maggioranza relativa (nella legislatura che si sta per concludere potevano far affidamento su 137 seggi). In questo modo anche il Parlamento passerebbe di fatto sotto la diretta influenza di Khamenei, preparandosi di fatto ad "indossare la divisa da guerra" per poter trattare con gli Usa. Il fronte conservatore, che sta spingendo molto sul sentimento nazionalista, incolpa il presidente Rohani di essersi colpevolmente fidato degli Stati Uniti, che nel 2018 sono usciti unilateralmente dall’accordo sul nucleare e che pochi mesi fa hanno ucciso uno dei simboli di Teheran. "L'unica soluzione per scoraggiare i nemici – ha dichiarato nei giorni scorsi Khamenei - è far diventare più forte l'Iran e per questo serve un Parlamento forte, che deve poter fare delle leggi che servono e così guiderà tutti i governi che arriveranno dopo in una direzione corretta per il Paese".

Le critiche di Rohani

Rohani si appresta ad affrontare un difficile ultimo anno di mandato, durante il quale rischierà progressivamente l’irrilevanza politica. Nei giorni scorsi ha annunciato che accetterà l’esito del voto qualunque esso sia ma non ha risparmiato le critiche: "Se il sistema sostituisce le elezioni con le nomine, e le elezioni diventano solo una formalità, sarà il pericolo più grande per la democrazia e la sovranità nazionale". Secondo il presidente "dovremmo ottenere la fiducia del popolo e garantire che non c'è un regime del partito unico come nel comunismo. Oggi invece - ha proseguito il capo del governo di Teheran facendo riferimento al bando di molti candidati - è come se si andasse al negozio per comprare qualcosa, ma fosse poi permesso di scegliere solo una marca". Critiche che non sono passate inosservate a Washington da dove il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, ha accusato le autorità iraniane di "mentire costantemente al proprio popolo, che minacciano con disprezzo". "Il regime", ha continuato Pompeo, "sta vietando a migliaia di candidati di correre per un posto in Parlamento in elezioni manipolate pubblicamente e in modo massicci. Persino il presidente dell'Iran dice che non sono elezioni vere".

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