Gli orfani della rivoluzione: storia di un crimine di regime (e di una foto manipolata)

Mondo

Filippo Maria Battaglia

IL LIBRO DELLA SETTIMANA. In Besprizornye (Adelphi) Mecacci racconta la vicenda dei 7 milioni di “bambini randagi” nella Russia sovietica rinchiusi in orfanotrofi-lager e costretti a furti, prostituzione, cannibalismo. Per anni dimenticati dalla storiografia

Mosca, 1919. Una fresca mattina di primavera. Vladimir Il'ič Ul'janov arriva nella Piazza Rossa per festeggiare il primo maggio. È appena sceso da un’auto nera quando una manciata di adolescenti orfani, vestiti per lo più di stracci, lo riconosce, gli corre attorno e lo circonda. Ul'janov, già da anni noto in tutta la Russia col nome di Lenin, non li scansa. Al contrario: si ferma a chiacchierare e si fa ritrarre dal fotografo ufficiale. Lo scatto per qualche decennio resta sepolto tra gli scaffali della propaganda comunista, fino a quando, nel 1967, il giornalista Michail Leščinskij decide di indagare sull’identità del bambino sudicio e sorridente che affianca “il grande compagno Lenin” (qui sotto, in questa foto). E con entusiasmo rivela che si tratta nientemeno che di Nikolaj Dubinin, il più autorevole e potente biologo sovietico del dopoguerra, premio Lenin e membro dell’Accademia delle Scienze.

La bufala di regime

È una favola perfetta per la propaganda di regime: “Un bambino che avrebbe potuto facilmente morire, alla fine, grazie alle cure del Partito, grazie alle cure di Lenin, era diventato un autentico sovietico”. Devono passare diversi decenni prima che l’oleografia inizi a incrinarsi. Si scopre così che il bimbo sorridente ritratto nello scatto sfocato del ’19 non è affatto Nikolaj Dubinin, ma solo uno dei sette milioni di orfani rimasti a vagabondare in seguito alla guerra, la rivoluzione o la carestia nella grande madre patria Russia comunista.

Le denunce di Roth e Simenon e l’insabbiamento

È a loro che Luciano Mecacci ha dedicato un saggio da poco pubblicato per Adelphi e intitolato Besprizornye. Bambini randagi nella Russia sovietica (pp. 274, euro 22). Una storia tragica, spesso orrifica, incredibilmente sottratta alla storiografia ufficiale nonostante fosse stata denunciata in presa diretta da scrittori del calibro di Joseph Roth e Georges Simenon. Proprio Roth, in un viaggio in Russia del 1926, racconterà di “torme di bambini abbandonati, pittoreschi e coperti di stracci” che “vanno a zonzo, corrono, stanno seduti per le strade”, vivendo “di aria e di sventura”. Non sarà il solo. Nei primi anni della dittatura saranno centinaia le denunce sui “figli di nessuno”, costretti letteralmente a morire di freddo e fame. Tutte denunce respinte sdegnosamente al mittente come “propaganda antisovietica straniera” dai più fedeli aedi del dettato comunista, a cominciare dalla pedagogista (e moglie di Lenin) Nadežda Krupskaja, secondo cui le torme di orfani erano tutta colpa della passata politica zarista e borghese.
Il problema, però, è che, dopo i primi anni della “rivoluzione” animati dalla buona volontà di porre fine all’emergenza sociale, le cose non cambieranno. Tanto da indurre la Čeka, la famigerata polizia politica segreta fondata da Feliks Dzeržinskij, a istituire colonie nelle quali confinare i “besprizornye”. L’obiettivo teorico è “acquisire il rispetto delle norme morali e sociali e delle leggi dello Stato”; lo scopo concreto, silenziare l’emergenza dietro la solita impenetrabile cortina di silenzio.

Furti, prostituzione, cannibalismo

Gli orfani finiranno così in un limbo criminale e spesso disumano. Suddivisi tra loro in rigide gerarchie e persino in distretti geografici, impareranno presto le regole della malavita con tecniche sempre più collaudate: “Ficcare semplicemente la mano dentro una tasca non era visto di buon occhio”, racconterà uno di loro, il veterano Miška, che la taccerà come “una tecnica all’antica. Il metodo migliore era quello di infilare un pezzetto di lama da rasoio sotto l’unghia del pollice, in modo che il filo della lama sbucasse un po’. Dopo aver individuato un portafoglio nella tasca interna di un passeggero, uno di noi l’avrebbe urtato e spinto. Questo era il momento per fendere la cucitura inferiore della tasca. La spinta successiva, che sarebbe arrivata dal lato opposto, avrebbe fatto scivolare il portafoglio dalla tasca nelle mani del nuovo proprietario”.
Se il furto è una via di fuga dalla miseria, l’altra è la prostituzione. Mecacci dà conto di decine di storie di bambine costrette per non morire di fame ad adescare passanti in stazioni e ridotte in condizioni psicofisiche devastanti. Come quella di Borisova, undici anni appena compiuti e già sifilitica, o quella di Michaijlova, di qualche mese più grande e già colpita da gonorrea.
Sono talmente poveri, i “besprizornye”, e sono così reietti e indistinguibili tra loro, da giocarsi a carte persino le proprie identità (e le relative condanne penali). Gran parte di loro finirà rinchiusa in orfanatrofi-lager. Altri – durante le feroci carestie degli anni Trenta – saranno costretti a spolpare cadaveri alla disperata ricerca di albumina. Chi sopravvivrà, diventerà carne da macello dell’Armata Rossa, finendo sterminata sui campi di mezza Europa durante la seconda guerra mondiale.

Mondo: I più letti