Arriva nelle sale italiane il 29 aprile, distribuito da Wanted Cinema e Feltrinelli Real Cinema, The Brink – Sull’orlo dell'abisso, documentario diretto dalla regista Alison Klayman, che ha seguito per più di un anno Steve Bannon, ex stratega e uomo chiave di Trump.
Di Valentina Clemente
Diretto da Alison Klayman, prodotto da Marie Therese Guirgis, ex collaboratrice di Bannon e presentato allo scorso Sundance Film Festival, “TheBrink – Sull’orlo dell’abisso”, segue l’ex stratega dal suo allontanamento dalla Casa Bianca fino al termine della sua campagna itinerante tra U.S.A ed Europa, e fa luce sui suoi sforzi per dare vita a The Movement, l’organizzazione creata per promuovere una politica sovranista e populista nel Vecchio e Nuovo Continente, al fine di unificare i partiti di estrema destra.
È donna forte, Alison Klayman. Classe 1985, forse è diventata ancora più strong dopo aver seguito, 24 ore su 24, Steve Bannon. Ma soprattutto è riuscita ad evidenziare debolezze e fragilità di un “perfetto venditore di idee”.
Raccontare una storia su cui in molti altri si sono concentrati è molto difficile. Soprattutto quando si tratta di Steve Bannon, che in molti definiscono “il genio del male”. Lei come è riuscita a far emergere altri aspetti di Bannon?
Dietro ad un’idea c’è sempre una persona. E credo che sia sempre fondamentale far emergere chi è dietro questa specifica idea. In questo caso, in The Brink, mi interessava capire chi fossero le figure in grado di animare la destra, e nello specifico Steve Bannon che, in effetti, in moltissimi definiscono il male. Ma ricordiamoci sempre che il male ha sempre un volto umano. In questo mio lavoro ho voluto raccontarlo. Ho avuto l’opportunità di poter osservare una figura come Bannon veramente da vicino, nei suoi impegni quotidiani. E quando io stessa gli ho fatto delle domande, le ho fatte in modo pacato perché, in caso contrario, avrei visto lo stesso Bannon che tutti vedono: aggressivo. E io non volevo sottolineare questo. Ho parlato con lui per molte ore, raccolto molto materiale che mi ha aiutato a capire meglio la sua personalità.
Per poter dimostrare che figure come Bannon hanno anche altre caratteristiche – rispetto a quelle che tutti conoscono – è fondamentale guadagnare la loro fiducia. Lei ha avuto accesso a dialoghi segreti ed incontri importanti. Come è riuscita ad ottenere la fiducia di Bannon per poter essere nel posto giusto, al momento giusto?
Raccontare storie vere è il mio lavoro. Credo che il segreto sia stato dire sempre la verità, senza alcuna restrizione. Non avevo una falsa identità mentre facevo il mio lavoro. E Bannon era a conoscenza delle mie idee politiche, totalmente opposte alle sue. In aggiunta a questo, il mio obiettivo principale era far succedere qualsiasi cosa davanti alla telecamera: nessuno, guardando il mio documentario, avrebbe dovuto immaginare qualcosa. Tutto doveva succedere davanti ai miei occhi. Ero lì per raccontare una storia, non delle finte idee.
Tutto è nato perché la produttrice del film, che conosceva Bannon, mi ha chiamata per lavorare a questo progetto: agli inizi del mio lavoro, io e Marie Therese Guirgis, la produttrice del documentario, non abbiamo mai condiviso idee politiche o opinioni su Steve Bannon. Ora, dopo alcune interviste e soprattutto a lavoro concluso, so come la pensa. Ma non l’ho mai saputo mentre stavo girando. Anche lei, che per anni ha visto Bannon da vicino, voleva che avessi una mia idea da trasmettere sul grande schermo, senza farmi condizionare da altre opinioni. Sicuramente il fatto di essere stata contattata da lei, direttamente, per realizzare questo documentario mi ha aiutata molto: sono certa che se avessi chiamato Bannon per proporgli questo progetto, il risultato non sarebbe stato lo stesso. È bene ricordarlo. In molti mi chiedono come io sia riuscita a mantenere la calma sentendo determinate cose. Ma è il mio lavoro.
Lei si è concentrata molto sul linguaggio del corpo di Bannon: ha spesso inquadrato il suo sguardo, talvolta privo di espressione, davanti a domande difficili. Anche quando lei chiede: Bannon, ma lei è amico di Donald Trump? Bannon risponde con un secco no, scuotendo soltanto le spalle. Da quello che ha visto, crede veramente che non siano amici?
Credo non lo siano veramente. Credo ci sia una forte frustrazione di Bannon nei confronti Trump. È un’opinione personale, certo, ma è quello che emerso. La risposta che mi ha dato, infatti, è stata fin troppo perfetta. Non ha mai detto nulla di negativo sul Presidente Trump, e tutto questo mi è sembrato quasi forzato. Ripeto: è una mia idea, basata su quello che ho visto e sentito. Credo che gran parte della frustrazione di Bannon derivi dal fatto che lui si ritenga più forte ed intelligente di Trump ma, nel concreto, non ha mai avuto un controllo diretto su di lui: avrebbe voluto condizionarlo di più nelle sue scelte e invece non c’è riuscito. Ora Bannon può contare su Stephen Miller [uno dei più fidati consiglieri di Trump nonché autore del discusso ‘Travel ban’], prima c’era Jeff Sessions [dimessosi da Ministro della Giustizia il giorno dopo le elezioni di metà mandato, si mormora fosse già in cattivi rapporti con Trump a seguito dell’inchiesta Russiagate]. Diciamo che la mia domanda è arrivata nel momento giusto perché in molti si sono chiesti, in questi ultimi mesi, se ci fosse mai stato veramente un legame di amicizia tra i due.
Steve Bannon è riuscito a far vincere Donald Trump. Una missione che risultava impossibile ai più. Guardando alle elezioni europee di maggio e pensando al 2020, crede che Bannon possa veramente influenzare i risultati di queste consultazioni? È veramente così potente?
È arrivato tardi, ma è stato il perfetto consigliere. Ha detto a Trump di tirare fuori il peggio di sé, perché solo facendo così avrebbe potuto farcela. Alla fine la gente ha votato per Trump, e ha vinto. Credo Bannon stia facendo la stessa cosa in Europa: sta consigliando i leader a tirare fuori il peggio. Se si ritiene che il tema dell'immigrazione sia il tema su cui concentrarsi, continuate a parlarne: questo è il leitmotiv di Bannon.
La regola di Steve Bannon è: anche se non rappresenti la maggioranza, lo puoi diventare. Il modello alla base di questa idea è il movimento Tea Party: nato come una minoranza, una piccola parte del Partito Repubblicano, ora ne fa ufficialmente parte ed è il partito di Bannon. Non so se Mr B sia effettivamente così potente, ma posso certamente dire che sa esattamente cosa fare e come muoversi. È la spalla perfetta. Credo tutto dipenda dagli elettori, alla fine: se non si vota contro un sistema così articolato, nulla di diverso potrà mai succedere.
Nel Suo documentario Lei fa riferimento alle nuove figure femminili che stanno emergendo nella politica americana. Crede riusciranno a contrastare Trump nel 2020?
Per me era fondamentale far emergere le nuove donne della politica statunitense, proprio come contrasto allo stesso Bannon. Nel 2016, dopo le elezioni, l’America aveva una direzione, leggermente cambiata dopo le elezioni di metà mandato de 2018. Bannon, dopo le midterm elections ha perso un po' del suo potere, anche grazie alla vittoria di Alexandria Ocasio-Cortez, solo per citarne una. Il direttore de The Atlantic, proprio a seguito di questo episodio, ha definito Bannon "smaller than life". Nel mio documentario, dopo averlo conosciuto e visto lavorare per mesi, posso dire che non è soltanto il signore della politica in grado di vincere e far soccombere gli avversari, ma un uomo spesso disorganizzato, che non riesce a vincere sempre. Ma soprattutto è un grande venditore. In questo caso di idee. Non sempre vincenti, però.
Crede che Steve Bannon continuerà ad influenzare la politica americana ed europea?
Continuerà a farlo finché ci sarà qualcuno che lo finanzia. Quel che è emerso dal mio film è che Bannon non è un rivoluzionario, bensì un cimelio del passato. Non ha nuove idee nuove, continua a riciclare vecchi concetti. Pensiamo alla questione dell'immigrazione: quando si chiudono le porte ed iniziano gli incontri tra Bannon e i suoi collaboratori, nessuno di loro espone idee per migliorare il paese, come per esempio questioni legate all'economia. Sono preoccupati dell'Islam, dagli immigrati. Ma non danno soluzioni concrete.
Sa se Bannon ha visto il Suo film?
La mia produttrice gliel'ha fatto vedere prima della presentazione al Sundance Festival, a gennaio. Questo mi ha aiutato molto a fargli capire cosa intendessi in una determinata parte del film, proprio perché c’era qualcuno in grado di spiegargli determinate scene. Da quel momento in poi, però, i miei contatti con lui si sono chiusi.Devo essere sincera: non mi interessa sapere cosa ne pensa lui. Mi concentro molto di più su quello che pensano le altre persone che vedono il film. E, dalle prime impressioni, vedo che il mio messaggio viene compreso: il mio film è la descrizione di un uomo, con le sue debolezze genuine, i suoi pregi e difetti. Non volevo che Bannon potesse trarre beneficio da questo film, avrei fatto il suo gioco. E non l’ho fatto.