Storia di Mohamed Keita, da rifugiato a fotografo: i suoi scatti alla Biennale di Venezia

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Chiara Ribichini

Ha perso i genitori durante la guerra in Costa D'Avorio, ha attraversato Paesi e confini quando aveva solo 13 anni. Poi il viaggio in mare, la strada e quella foto del bagaglio da cui è iniziata un'altra vita: le mostre a Londra, a New York e i workshop. L'INTERVISTA

“La passione per la fotografia è iniziata quando dormivo sulla strada. Quando ero piccolo la fotografia non la consideravo neanche. Mi piaceva giocare a calcio e cantare. Questo viaggio mi ha insegnato tante cose ma non avevo il mezzo di come raccontarle. L’ho trovato grazie alla macchina fotografica. Cosa mi piace fotografare? La vita quotidiana delle persone. Non cerco la bellezza di una foto. Quello che mi interessa è condividere, attraverso un’immagine si può capire quello che pensa una persona. Ho sofferto molto nella mia vita proprio perché non avevo nessuno con cui condividere le mie esperienze”.
La guerra, la fuga, il mare, la strada. La solitudine estrema. Poi il riscatto. Mohamed Keita è un ragazzo ivoriano di 26 anni che oggi vive a Roma ed è un fotografo. I suoi scatti sono stati esposti alla Camera dei Deputati, a Milano, Londra, New York e tra pochi giorni arriveranno alla Biennale di Venezia. Tiene workshop di fotografia in diverse città italiane, ha aperto una scuola in Mali e sta per inaugurarne un’altra in Kenya. La sua è una delle cinque storie vere raccolte nel libro “In mezzo al mare” di Mary Beth Leatherdale ed Elizabeth Shakespeare (Editrice Il Castoro). Lo incontriamo a Roma durante una sua lezione al Civico Zero, il centro diurno di Save the Children dedicato alla protezione e alla promozione dell’integrazione dei minori stranieri non accompagnati che lo ha accolto quando, ancora bambino, è arrivato in Italia. Ed è proprio lì, tra quei corridoi e in quelle stanze dove oggi hanno trovato spazio tanti suoi lavori, che per la prima volta ha preso in mano una macchina fotografica, una usa e getta ricevuta in dono da un operatore.

La vita sulla strada e la foto del bagaglio

“C’era un ragazzo di Salerno che studiava qui alla scuola di fotografia di San Lorenzo. Si chiama Benedetto. Ci insegnava un po’ come funzionava la macchina fotografica. Mi ha dato le prime istruzioni su come stampare e sviluppare una foto. Poi ho avuto la possibilità di frequentare una scuola di fotografia che era qua accanto senza pagare. Non avevo niente da fare, avevo tanto tempo e ho iniziato a scattare”.
La prima foto di Mohamed, e anche quella da cui è iniziata la sua carriera, è nata dentro la stazione Termini, dove ha dormito per 3 mesi e 20 giorni appena sbarcato in Italia. Un cartone, una coperta, uno zaino. “Non avevo neanche una foto della mia vita fino a quel momento. Ho pensato così di fare la foto del bagaglio mio e di conservarlo. "Quando un giorno cambierò quella condizione, ricordandola, mi eviterò di fare alcune scelte sbagliate", mi ero detto. Tutto quello che faccio grazie alla fotografia è grazie a quella foto”.
Negli occhi di Mohamed si legge ancora la fatica di quei giorni vissuti sulla strada. “Ci sono persone che pensano che chi è nella strada non ha dignità ma non è così. Quando sei lì, le persone che passano ti guardano un po’ male. Lo capisco perché la strada non è un posto per dormire. Ma quando si vede una persona sulla strada come prima cosa bisogna sempre domandarsi perché è lì. La strada è un posto che non piace a nessuno”.

La guerra, la perdita dei genitori e il lungo viaggio

Non aveva scelto la strada Mohamed. Così come non avrebbe mai scelto di lasciare il suo Paese, da solo e ancora bambino, senza sapere dove andare. “Durante la guerra ho perso i miei genitori. Avevo 13 anni. E’ caduta una bomba sulla nostra casa e l’ha fatta crollare. Io ero lì con loro ma appena ho sentito il rumore sono uscito fuori, grazie a quello mi sono salvato. E’ molto triste. Sono rimasto solo. Non sapevo dove andare. Volevo ritrovare una famiglia. Ho pensato di raggiungere la Guinea, poi il Mali perché la lingua è la stessa. Da lì la Nigeria dove i militari mi hanno preso tutto, anche l’unico paio di scarpe che avevo. Così, a piedi scalzi, sono arrivato in Libia dove ho passato tanti guai. E lì ho capito quanto sia importante avere i genitori vicino che ti guidano. Quando un bambino non ha i genitori vicino bisogna stare molto attenti perché la vita è molto pericolosa. Basta incontrare le persone sbagliate. Io ho cercato sempre, anche nei momenti difficili, di ricordarmi quando ero con i miei genitori. Cosa mi hanno insegnato? Il rispetto, a non pensare di avere sempre il loro aiuto e a nuotare da solo”.

"Non ho mai avuto paura del mare, la vita non mi interessava"

Da solo Mohamed ha attraversato il mare quando non aveva più nulla, niente da lasciare e nessuna prospettiva. “Sono salito su una barca piccolina con 32 persone, c’erano anche due bambini. Il viaggio è durato tre giorni e tre notti. Avevamo solo un po’ di acqua e dei biscotti. Non è possibile portare nulla sopra perché non c’è posto. Non era freddo ma l’acqua salata ti blocca il corpo e non riesci più ad alzarti. Cosa mi ricordo? La paura delle persone. Mi sembrava una cosa strana. Io non ho mai avuto paura perché in quel periodo non mi interessava la vita. Quando uno soffre troppo… poi lo capisci che è una cosa sbagliata ma la sofferenza ti fa odiare tante cose. Anche le cose belle”.
Da Malta all’Italia con l’obiettivo di andare in Francia. “Stavo per prendere il treno da Roma e ho incontrato un ragazzo che parlava la mia lingua. Mi ha chiesto perché volevo continuare il mio viaggio visto che fino a quel momento era stato tutto difficile. ‘Stai un po’ qua, mi ha detto. E sono rimasto qui fino a oggi. Roma all'inizio è una città molto dura. Ora quando vado in Mali per i laboratori mi mancano gli amici che ho qui e viceversa. Non sono romano ma quando una persona si trova in un posto ha diritto di fare qualcosa lì”.

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