Sangue sulle elezioni in Afghanistan

Mondo

Gianluca Ales

Si è conclusa con un pesante bilancio di morti e feriti l’ultima tornata elettorale afgana. A 17 anni dall’intervento della coalizione internazionale è arrivato il momento di trarre un bilancio della più lunga guerra in cui sono impegnate le truppe occidentali

Era il 7 ottobre del 2001 quando le truppe dell’Alleanza del Nord, spalleggiate da Usa e Nato, diedero il via alla guerra in Afghanistan. A 17 anni da quel giorno, dopo che la capitale Kabul ha vissuto le elezioni alla camera bassa la – la Loyesi Jirga – come un sanguinoso braccio di ferro con i Talebani, è difficile guardare a quella missione internazionale e all’intervento con occhi favorevoli.

Innanzitutto perché, al di là dei proclami di un “prossimo disimpegno”, tutti sanno benissimo che se oggi i militari americani e della Nato lasciassero il paese si scatenerebbe il caos. A dimostrazione che il paese non si è mai stabilizzato, la democrazia non si è mai radicata e – soprattutto – i Talebani non sono mai stati sconfitti.

Non si tratta di tranciare giudizi con l’accetta, ma di una presa d’atto doverosa, per cercare di capire perché e come si è sbagliato per cercare di cambiare rotta. Con una premessa obbligatoria: nessuno ha la ricetta per la pace in Afghanistan. Un paese che da 40 anni è strangolato da una violenta guerra civile.

La lotta al terrorismo

In effetti, qualche problema c’era fin dall’inizio. Qual era l’obiettivo di Enduring Freedom? La cattura di bin Laden, si disse all’inizio, in quanto “ispiratore” dell’attacco alle Torri Gemelle. Ma questa è avvenuta in circostanze quantomeno misteriose nel 2011 in Pakistan, un paese teoricamente alleato.

La lotta al terrorismo di matrice islamista, venne poi chiarito. Ma – dati alla mano – sembra che questo obiettivo sia ben lontano dall’essere stato raggiunto. All’ingrosso, dopo l’intervento dell’Alleanza internazionale, si poteva dire che solo una parte del paese, la cosiddetta “cintura Pashtun”, presentava delle problematiche. Ma il nord e la capitale erano ben saldi. Nel 2004, durante delle prime elezioni che ufficializzarono Hamid Karzai alla guida dell’Afghanistan, a Kabul si poteva girare senza alcuna precauzione particolare. Si potevano prendere i taxi. Chicken Street, la via dello shopping, era letteralmente presa d’assalto dai giornalisti, dagli operatori umanitari e dai funzionari delle ambasciate a caccia del leggendario kashmir, dei tappeti persiani, delle pietre preziose e del pregiato artigianato locale. Oggi è semplicemente impensabile.

All’epoca la popolazione era divertita e incuriosita da questa colorata invasione di stranieri e non era infrequente incontrare donne che coraggiosamente si sollevavano il burqa per farsi riprendere. Per le strade gli elettori mostravano orgogliosi il dito marchiato di inchiostro, come segno di aver adempiuto il loro dovere. Certo, nel resto del paese l’atmosfera era meno festosa. E per certi aspetti le elezioni ebbero anche aspetti comici. In un villaggio, alla consegna delle urne, gli abitanti chiesero perché gli avessero dato delle scatole vuote, anziché aiuti umanitari. Quando gli venne spiegato che dovevano decidere chi fosse il loro presidente, la reazione fu di sincero sbigottimento: un capo già ce l’avevano, dissero, ed era il capo villaggio. Al di sopra c’era solo dio. Un presidente a che serviva?

L’esportazione della democrazia

Questo episodio, cui assistetti personalmente, è sintomatico di quale fosse lo stato dell’arte quando venne proclamato l’altro obiettivo della missione, cioè “l’esportazione della democrazia”. Ad oggi, nonostante lo sforzo eroico della popolazione, che ha pagato un pesante tributo di sangue a queste ultime consultazioni, non si può dire che la situazione sia mutata. Anzi, il clima di curiosa aspettativa è stato sostituito da un’atmosfera da resa dei conti.

La stabilizzazione e la ricostruzione

La stabilizzazione del paese, venne poi dichiarato. Ma anche qui il bilancio è onestamente fallimentare. Ora non solo il “Pashtunistan”, ma anche la capitale sono fuori dal controllo. Perfino la “green zone”, l’area teoricamente sterile, dove risiedono i palazzi governativi e le ambasciate, è frequente bersaglio di attentati. Non solo. A nord in diverse province sventola la bandiera nera dell’Isis, in concorrenza con i Talebani. Ma, ancora più banalmente, la cosiddetta ”ring road” l’arteria principale che collega appunto come un anello tutto il paese, è tuttora solo in parte asfaltata.

E quest’ultimo dato probabilmente ci permette di individuare uno dei punti più critici dell’intervento. La ricostruzione è al passo. Al di là dei generosi sforzi dei governi ma soprattutto delle ONG le infrastrutture sono ancora in gran parte distrutte, la scolarizzazione procede a passo di lumaca, l’economia non riesce a ripartire, se si eccettua il traffico di oppio (e armi). Forse un dato dovrebbe essere rivisto. 16 anni di guerra (i dati sono relativi al 2017, fonte Osservatorio MIL€X) sono costati 900 miliardi di dollari. Oltre il 90% è stato destinato a spese militari. Solo una porzione inferiore al 5% invece è stata utilizzata a scopi civli.

Difficile immaginare un cambio di direzione nell’immediato, e ad aprile si terranno le ben più importanti elezioni presidenziali. Prepariamoci.

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