Rohingya, accordo Birmania-Bangladesh per il rientro dei profughi

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Negli ultimi tre mesi, circa 620mila profughi Rohingya sono dovuti fuggire oltreconfine per sfuggire alla repressione militare birmana (Getty Images)

I due governi hanno siglato un memorandum che dovrebbe consentire ai rifugiati in territorio bengalese di poter tornare in patria. I termini del ritorno a casa, per la minoranza musulmana, appaiono però fumosi e privi delle garanzie di sicurezza necessarie

I rifugiati Rohingya in Bangladesh potranno fare ritorno in Birmania. È quanto stabilisce un memorandum d’intesa siglato tra i due Paesi il 23 novembre nella capitale birmana Naypyidaw. Una parte dei circa 620mila profughi che, negli ultimi tre mesi, sono dovuti fuggire oltreconfine per sfuggire a una repressione militare definita "pulizia etnica" dall'Onu, potranno abbandonare i campi in cui sono alloggiati e tornare in quel che resta delle loro case. Una notizia che però non è stata accolta con entusiasmo dai Rohingya, che considerano l’accordo ancora troppo fumoso e privo delle garanzie di sicurezza necessarie. 

Per l’Onu si è trattato di genocidio

Alla vigilia dell’annuncio dell’accordo, l'avvocato Pramila Patten, inviata dell'Onu con competenza sulle violenze sessuali durante i conflitti, ha dichiarato che l’esercito birmano nell’offensiva contro la minoranza musulmana Rohingya ha compiuto atrocità da considerarsi come crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio. Atti "ordinati, orchestrati e commessi" che, secondo le testimonianze raccolte nei campi profughi bengalesi da Patten, comprendono abusi "tra i più scioccanti e orrendi, commessi a sangue freddo con un odio senza precedenti". Questa dell’Onu è solo l’ultima accusa proveniente dalla comunità internazionale nei confronti del governo di Aung San Suu Kyi che finora, però, ha negato di aver commesso violenze contro i Rohingya. Secondo la versione di Naypyidaw, l’esercito birmano avrebbe condotto un'operazione di sicurezza in risposta agli attacchi terroristici del 25 agosto, durante i quali morirono 13 persone.

Un gruppo di lavoro congiunto per passare alla fase operativa

Da quel giorno l'intera fascia settentrionale dello stato di Rakhine è stata svuotata della presenza dei Rohingya, che prima rappresentavano la maggioranza della popolazione residente nella regione. Secondo il ministro degli Esteri del Bangladesh, Mahmooh Ali, uno dei firmatari del memorandum, l’accordo rappresenta "un primo passo", dal quale dovrà partire un gruppo di lavoro congiunto tra il Paese e la Birmania con l’obiettivo di tramutare in pratica il trattato. I termini dell’accordo sono simili a quelli siglati dai due Paesi nel 1992, in un'intesa che però aveva per oggetto un esodo pari a un terzo di quello avvenuto negli scorsi mesi.

Scetticismo sull’accordo

Le numerose complicazioni che emergono per i profughi Rohingya hanno impedito a questa minoranza in esilio di accogliere con favore la notizia. Lo scoglio principale è costituito dalla necessità di presentare i documenti che provino il diritto di residenza per poter chiedere il rimpatrio. Certificazioni che in molti hanno smarrito nella fuga precipitosa dall’esercito birmano o che, in molti casi, non sono mai state concesse. I Rohingya, infatti, non sono riconosciuti tra le 135 minoranze ufficiali della Birmania e una legge del 1982 nega loro la cittadinanza, motivo per il quale lo Stato asiatico li considera apolidi e non legittimi cittadini.

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