Chi sono i Rohingya, la minoranza più perseguitata al mondo

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Un campo profughi in Bangladesh in cui migliaia di Rohingya hanno cercato rifugio (Getty Images)

Una minoranza musulmana che conta circa un milione di persone e vive per lo più nella regione settentrionale del Myanmar. Discriminati e perseguitati da anni, l'Onu ha definito la violenza contro questo gruppo un caso di "pulizia etnica"

Dove vivono i Rohingya

I Rohingya sono un gruppo etnico di fede musulmana che risiede principalmente nel nord dello stato birmano del Rakhine. Gruppi di Rohingya vivono anche in Bangladesh, Arabia Saudita e Pakistan. In totale, la popolazione Rohingya conta circa 1,1 milioni di persone, di cui la maggioranza vive nello stato del Rakhine. La lingua parlata da questo gruppo etnico è, appunto, il rohingya, una lingua simile al dialetto bengalese Chittagong, parlato in Bangladesh.  

La minoranza "più perseguitata al mondo"

I Rohingya non sono riconosciuti tra le 135 minoranze ufficiali della Birmania. Una legge del 1982 nega loro la cittadinanza e per questo lo Stato li considera apolidi. Di conseguenza, sono soggetti a diverse discriminazioni e il loro accesso ai servizi statali(sanità, educazione, libertà di movimento) è limitato. Spesso si parla di loro come della minoranza “più perseguitata al mondo”.

 

Tensioni che durano da anni

Nel 2012 le tensioni tra i Rohingya e la maggioranza buddista nello stato del Rakhine sono esplose provocando violenti scontri e causando la fuga di decine di migliaia di musulmani che si sono trovati confinati nei diversi campi profughi sparsi nel Paese e nel vicino Bangladesh. L’ottobre del 2016 ha registrato un nuovo picco di tensione nella zona, con l’uccisione di alcuni militari birmani e la repressione della popolazione Rohingya. Negli anni, entrambe le parti hanno accusato l’altra di uso eccessivo della violenza e il governo birmano sostiene di aver colpito solamente i responsabili degli attacchi contro le forze di sicurezza dello stato, considerati terroristi.

Gli scontri più recenti

Il 25 agosto 2017, nuovi scontri sono scoppiati tra la maggioranza buddista dei birmani e la minoranza musulmana Rohingya, provocando circa mille morti. L’Alto Commissario per i diritti umani dell’Onu ha definito la risposta militare birmana “sproporzionata”, rispetto agli attacchi dei militanti Rohingya e ha definito quello in atto un esempio di “pulizia etnica”. Amnesty International, tra gli altri, ha denunciato diverse violazioni dei diritti umani contro i Rohingya, inclusi omicidi, arresti arbitrari, violenze sessuali e la distruzione delle abitazioni tramite incendi.

Circa 400mila persone in fuga

Secondo quanto riporta l’Unicef, questa nuova ondata di violenza ha portato circa 400mila persone (dal 25 agosto al 14 settembre) a fuggire verso il Bangladesh e verso i campi profughi sempre più affollati. Le condanne per quanto sta accadendo nel Paese sono giunte da più parti. “Chiedo alle autorità birmane di sospendere l'azione militare, cessare la violenza, applicare la legge e riconoscere il diritto di ritornare nel Paese a tutti coloro che sono fuggiti", ha detto più volte il segretario generale dell'Onu António Guterres. Un appello a cui si è unita l’Unione Europea.

La risposta di Aung San Suu Kyi

Dopo settimane di silenzio, la leader de facto della Birmania e premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi ha risposto alle accuse della comunità internazionale. "Siamo preoccupati di sentire che molti musulmani stanno scappando sul confine col Bangladesh. Vogliamo scoprire perché quest'esodo sta avvenendo”, ha detto, aggiungendo di “non voler attribuire colpe a nessuno ma di condannare ogni violazione dei diritti umani”. Una risposta insoddisfacente per Ong umanitarie come Amnesty International and Human Rights Watch e per l’Onu, il cui presidente della Missione internazionale e indipendente di fact finding in Myanmar Marzuki Darusman è tornato a chiedere una maggiore collaborazione da parte del governo. 

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