Abdi, la Somalia e quell'ospedale che ha salvato 90mila vite

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Il particolare della copertina del libro edito da Vallardi
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La storia dell'attivista somala data in sposa a 12 anni e diventata ginecologa grazie a una borsa di studio è al centro di un'autobiografia edita Vallardi che racconta anche la miracolosa costruzione di due strutture sanitarie a Mogadiscio. ESTRATTO

di Hawa Abdi (con Sarah J. Robbins)

Per tre mesi risparmiai il più possibile sul mio stipendio per acquistare materiali da costruzione, soprattutto cemento e lastre di lamiera, per realizzare quella che sarebbe diventata una clinica con una sola camerata da ventitré letti, come avevo progettato con il nostro amico ingegnere.
Un parente mi presentò un’ostetrica che lavora tuttora con me, poi assunsi due infermiere e una donna delle pulizie che avevano lavorato in un nuovo ospedale per donne e bambini, il Banadir, costruito con i fondi del governo cinese nel 1977.
La donna delle pulizie aveva una funzione davvero essenziale, dato che una sala parto deve essere immacolata e c’è sempre un mucchio di lenzuola da lavare. Nello stesso periodo Aden e io costruimmo la fattoria. Andammo insieme alla banca per lo sviluppo, portando con noi gli atti di proprietà, per richiedere un mutuo, poi Aden si presentò al Ministero dell’Agricoltura e ritornò a casa con un trattore. Il lavoro era pesante, ma avevamo tante soddisfazioni: le colture crescevano rigogliose e ogni mattina, all’alba, mio cugino portava frutta e verdura con il pick-up al mercato principale di Mogadiscio, il Bakara.
Al ritorno consegnava il denaro ricavato con la vendita, oltre a carne, zucchero, tè e tutto ciò che avevo chiesto dalla città; poi faceva colazione con noi e ripartiva per portare Deqo a scuola.

In maggio diedi alla luce un maschietto sano e robusto, Ahmed, che aveva lo stesso collo aggraziato di mio padre. Faduma Ali venne ad aiutarmi, così come facevano le mie bambine, e recuperai velocemente le forze passeggiando nei campi. La clinica fu aperta qualche tempo dopo, il 15 agosto 1983.
All’inizio avevamo pochissime pazienti: a volte cinque, massimo dieci. Ma, poiché ci trovavamo sulla strada principale e le notizie si propagano a gran velocità, presto trovai una lunga fila di donne in attesa quando tornavo dal lavoro in città. In generale, chi partoriva senza complicazioni restava da noi una sola notte. In cambio pagavano l’equivalente di 35 centesimi di dollaro, più o meno; era una tariffa bassa, ma non così insolita. Questo non valeva per chi era più benestante: quando in clinica si presentava la moglie di qualche uomo d’affari o le mogli dei ministri di Siad Barre, pagavano ben di più. Se sapevo che qualcuna non poteva permettersi neppure quei pochi centesimi, lavoravo gratis. Questi non erano solo atti di generosità da parte mia: il fatto è che, quando i somali si mettono in testa qualcosa, perseverano finché non la ottengono! Non ti mollano, anche se te ne vai; ti seguono, dicendo: «Preghiamo per te! Non vogliamo maledirti! Per favore, cura nostra figlia!»

Io poi non sopportavo di vedere la gente soffrire: dovevo fare qualcosa. Nel caso di complicazioni gravi, se era necessario un trasferimento in ospedale, inviavo la paziente al Banadir, dove lavorava un gruppo di medici cinesi dei quali ero diventata amica: un ginecologo/ostetrico, un chirurgo, un internista e un pediatra. Quando non erano di turno, questi stessi medici venivano in macchina alla nostra fattoria a prendere frutta e verdura fresche.
Un giorno, tornando a casa dopo aver fatto lezione in università, trovai una donna che mi aspettava seduta su una panca. «Salve » la salutai. «Stai poco bene?» «No» rispose. «Mi ha portata qui mio cugino. Voglio un lavoro. » Si chiamava Faduma Duale e la sua sola esperienza era un corso di pronto soccorso presso la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa. Le dissi di ritornare dopo un paio d’ore e, non appena ebbi sbrigato i casi più urgenti, le spiegai come accogliere le pazienti, mostrare loro dove fosse il bagno, come prendere i loro dati. Faduma Duale iniziò così a lavorare immediatamente e da allora diventò il mio braccio destro. A circa due mesi dall’apertura ricevevamo un centinaio di pazienti al giorno, e la fila di donne accompagnate dai genitori o dai figli si allungava ben oltre il loggiato che avevamo costruito.
Se volevo finire intorno alle dieci di sera, cercavo di dedicare a ciascuna paziente circa dieci minuti, il tempo di visitarla, di dirle che era tutto a posto o di fare una diagnosi, e se necessario prescriverle un farmaco o un trattamento topico. Con il tempo imparammo che, se da un lato le pazienti della campagna a volte erano meno informate sulle questioni di salute e di igiene di base rispetto alle donne che vedevo in ospedale a Mogadiscio, dall’altro non avevano sviluppato lo stesso tipo di resistenza a certi antibiotici e altri farmaci. Ciò, per loro, significava spesso una guarigione più rapida. Ma, nonostante la mia indipendenza e la fiducia sempre maggiore nella mia clinica, avevo ancora bisogno dell’autorizzazione da Mogadiscio per eseguire qualsiasi tipo di intervento di chirurgia, anche nelle situazioni più urgenti. Le lotte di potere continuavano, perché chi combatteva per ottenere maggiore prestigio si serviva di scienza e conoscenza come armi. Ricordo un noto medico che era tanto ansioso di pubblicare le proprie ricerche da non esitare a somministrare ai pazienti dosi più alte di un certo farmaco o a praticare infusioni non necessarie, unicamente a guisa di esperimento. Parlai con alcune ostetriche: ci domandavamo cosa sarebbe potuto succedere quando le nostre pazienti fossero tornate a casa. Anche se la madre sembrava stare bene in ospedale, non sapevamo mai se era lo stesso anche per il bambino. Poiché il mio ambulatorio rurale cresceva, e inviare le pazienti ad altri medici diventava sempre più difficile, cominciai a pensare di creare una sala operatoria interna.

L’attività chirurgica avrebbe trasformato un ambulatorio in un ospedale, ma Siad Barre aveva dato il permesso solo di aprire e gestire piccole cliniche. Cominciai comunque a procurarmi le attrezzature necessarie e parlai con l’amico ingegnere della mia idea e di altri ampliamenti. «Hawa, quando ti fermerai?» mi chiese Aden. «Hai intenzione di costruire da qui a Mogadiscio?» Amina era ancora piccola, ma Deqo era in grado di capire ed era dalla mia parte. «Mamma, devi andare avanti!» diceva.

In quel periodo ebbi in cura la segretaria personale di Siad Barre, Halawe, la quale appoggiava il mio progetto di espansione della clinica. Un giorno, mentre al Digfeer stavo facendo il giro delle pazienti con i miei studenti, venne un uomo a cercarmi e mi annunciò: «Questa sera, alle undici, avrà un incontro con il presidente». «Stasera?» domandai, sorpresa. «Si faccia trovare ai cancelli della Residenza statale. Verrà a prenderla la sua segretaria.» Non ero tanto sorpresa che Siad Barre mi avesse dato appuntamento così tardi. Riceveva i visitatori dalle undici alle tre di notte, tenendosi sveglio con abbondante caffè, e poi dormiva dalle quattro alle undici del mattino. Quel pomeriggio tornai a casa come al solito, feci il giro della clinica e andai a cambiarmi d’abito: non volevo essere troppo formale, ma abbastanza elegante per rispetto nei confronti del presidente.
Arrivò una macchina a prendermi e filò veloce su Afgoi Road, mentre io continuavo a chiedermi se la mia richiesta sarebbe stata accolta. Halawe venne a prendermi al cancello, mi abbracciò e mi condusse oltre il cortile, rischiarato da suggestive luci colorate che si allungavano lungo l’ampio viale di accesso e sull’edificio stesso. All’esterno c’erano almeno trenta addetti alla sicurezza, e altre persone, chi in uniforme e chi in abiti civili, stavano sedute in piccoli gruppi a chiacchierare e bere tè e caffè. Mentre entravamo nel suo ufficio, scorsi il presidente impegnato a giocare a ping-pong. Aveva l’aria rilassata e pareva molto più giovane; quando gli passammo davanti non alzò lo sguardo. Percorremmo un corridoio scarsamente illuminato e fui fatta accomodare nel suo ufficio, dove mi sedetti su una poltrona ad aspettare. Halawe mi portò una bottiglietta di aranciata da bere nell’attesa.

Rimasi là per tre quarti d’ora abbondanti mentre Siad Barre incontrava una delle sue mogli. Finalmente arrivò Halawe e mi invitò a seguirla. La prima cosa che notai del presidente fu il suo viso: aveva la carnagione e il colorito della persona in salute, gli occhi vivaci, e mi sorrideva nella sua uniforme color kaki. «Signor presidente, la ringrazio per avermi ricevuta e avermi concesso questo incontro» esordii. Mi fece cenno di accomodarmi e così feci, lisciando la piega dei pantaloni prima di accavallare le gambe.
«Sono la dottoressa Hawa Abdi Diblawe. Vivo tra Mogadiscio e Afgoi, in campagna. Ci sono molte persone che soffrono e non hanno i mezzi di trasporto per raggiungere gli ospedali qui in città.»
«E lei vorrebbe costruire un ospedale» continuò lui. «Sì» risposi. «Ha idea di quanto sia complicato costruire un ospedale?» domandò. Mi elencò tutti i possibili problemi inerenti alla costruzione, mi avvertì della necessità di osservare elevati standard di pulizia e di seguire i protocolli nazionali. «Non è una cosa facile» mi redarguì. «Signore, io voglio ardentemente mettere in piedi questo ospedale. Ci sono donne che soffrono.» Mi interruppe per dirmi quale fosse la sua posizione riguardo ai diritti delle donne, che lui considerava la spina dorsale della società somala. Quando ebbe finito di parlare, mi congedò.
«Può essere che lei debba tornare per un incontro con il ministro della Sanità» disse. Poiché non mi ero aspettata una risposta, mi limitai a ringraziarlo per il tempo che mi aveva dedicato e me ne andai. In macchina, verso casa, provai a rammentare tutte le cose buone che il presidente aveva fatto per il Paese; anche se pareva che tutta la Somalia lo detestasse, per alcuni versi mi trovavo d’accordo con lui. La volta successiva che Halawe venne da me, mi portò una busta rosa con l’intestazione dell’ufficio del presidente; conteneva una lettera che mi autorizzava a costruire un reparto di chirurgia con altri venti posti letto, l’ospedale Hawa Abdi. Un’organizzazione internazionale chiamata Church World Service inviò un’impresa americana per una valutazione del progetto.

Ci fecero avere il cemento sufficiente alla costruzione del tetto e dei pilastri di sostegno, e mettemmo da parte i materiali avanzati per costruzioni future. Nel frattempo Aden recuperava le attrezzature necessarie all’attività agricola, compreso un grosso motore proveniente dalla Germania dell’Est per pompare l’acqua necessaria alla nostra casa, alla fattoria e alla clinica.
Costruivamo senza sosta, fermandoci solo quando finivamo i soldi e al venerdì, quando nessuno lavorava. Poi salivamo sul pickup e andavamo sino al confine della proprietà a respirare la brezza fresca. Organizzavamo dei bei picnic con carne di cammello, pasta, riso, zucchero e disponevamo tutto all’ombra degli alberi, invitando i nostri collaboratori. Ad Amina piaceva tanto guardare le piccole banane verdi sugli alberi!
Anni dopo, mio figlio Ahmed mi avrebbe detto che per lui quei giorni erano stati tra i più felici della sua vita. La memoria è un meccanismo complesso: non posso tornare al passato, a un giorno del 1986, quando uscii sulla veranda e vidi un mare di verde che si stendeva davanti ai miei occhi. A volte mi domando come mi sarei sentita se avessi potuto vedere il futuro. Ma questo è impossibile, come l’idea di uscire oggi su quella stessa veranda e vedere la piccola Deqo correre spavalda verso la fattoria per andare a cercare Aden.
Copyright © Hawa Abdi, 2013 Copyright © 2014 Antonio Vallardi Editore, Milano

Tratto da Hawa Abdi e Sarah J. Robbins, Tener viva la speranza, Vallardi, pp. 340, euro 14,90

Hawa Abdi è oggi la più famosa attivista somala per i diritti umani. Orfana di madre e data in sposa a soli 12 anni, è diventata ginecologa grazie a una borsa di studio sovietica e per anni ha lavorato in ospedale con colleghi medici italiani. Con la guerra civile, ha trasformato le sue terre alle porte di Mogadisco in uno dei campi profughi più vasti del Paese. Nominata Donna dell'Anno nel 2010 dalla rivista Glamour e citata tra le Donne più influenti del mondo da Newsweek nel 2011, Hawa Abdi ha vinto anche la Medaglia John Jay per la Giustizia nel 2012 e il Vital Voice's Global Leadership Award nel 2013.

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