Parte la campagna contro i Jeans vintage: "Sono pericolosi"
MondoAl via il 14 febbraio 1 settimana di mobilitazioni indette dalla coalizione Abiti Puliti contro la sabbiatura, una tecnica usata per sbiancare i popolari pantaloni, molto dannosa per la salute dei lavoratori. Alcune grandi marche hanno deciso di abolirla
di Carola Frediani
I jeans sono sempre stati la divisa d'ordinanza delle manifestazioni. Ora però sono passati dall'altro lato della barricata finendo nel mirino dei contestatori. La giornata dedicata agli innamorati è infatti anche l'inizio di una settimana di mobilitazioni europee ed italiane in cui una serie di Ong e associazioni per i diritti umani chiedono di mettere al bando il denim sabbiato. Già, proprio quei pantaloni che magari sono nell'armadio, comprati a caro prezzo per un look vintage e vagamente anticonformista, arruffato con stile. Perché quelle chiazze biancastre che ottengono l'effetto di invecchiare il tessuto e di impreziosirlo (almeno dal punto di vista del prezzo sul cartellino) sono ottenute attraverso una tecnica da muratore che si chiama sabbiatura. Anche se il termine inglese, sandblasting (derivato da sand, sabbia e blast, esplosione), rende molto meglio: infatti il processo erosivo sul denim avviene attraverso dei compressori ad aria che sparano la sabbia.
Il problema è che questi materiali abrasivi contengono grandi quantità di silice la quale, spargendosi nell'ambiente lavorativo, finisce con l'essere inalata dai lavoratori. L'esposizione alla silice provoca la silicosi, una malattia polmonare incurabile che nei casi più gravi porta alla morte.
La questione della sabbiatura è emersa per la prima volta in Turchia nel 2005, quando i medici si sono accorti della diffusione di questa patologia – un tempo associata ai minatori - tra i lavoratori delle fabbriche di jeans. Addirittura all'inizio era stata scambiata per tubercolosi. Ma poi con il crescere dei casi e della loro gravità i dottori hanno collegato la silicosi al sandblasting.
Da lì è nato un comitato di solidarietà che ha successivamente portato a una coalizione internazionale: perché i jeans sabbiati non sono prodotti solo in Turchia – dove una legge nel 2009 li ha banditi, anche se rimane il problema del sommerso – ma pure in molti altri Paesi, dal Pakistan all'Egitto, dalla Cina al Messico.
A guidare l'iniziativa è la Campagna Abiti Puliti, un insieme di gruppi sindacali e di Ong che da anni si battono per rendere più trasparente ed equo-solidale il settore tessile. Dopo mesi di confronti più sotterranei con i marchi dell'abbigliamento, la campagna è uscita allo scoperto nel novembre scorso e ora lancia una settimana di azioni, rivolgendosi da un lato ai produttori di jeans perché prendano posizioni chiare, e dall'altro al grande pubblico, cui si chiede di partecipare, soprattutto attraverso la rete.
Cosa possono fare i consumatori allora? Oltre a non comprare i jeans incriminati, possono sottoscrivere un appello alle aziende perché smettano di usare il sandblasting; oppure mostrare il loro sostegno pubblicando il logo dell'iniziativa come foto del proprio profilo su Facebook; o meglio ancora una propria foto in jeans con lo slogan anti-sabbiatura in bella vista, postandola anche sulla bacheca della pagina di Abiti Puliti. O ancora, per i più temerari, distribuire in giro il simbolo della campagna sotto forma di tasca virale.
“Vogliamo portare il tema all'attenzione dei consumatori”, ha commentato a Sky.it Deborah Lucchetti, portavoce italiana della campagna. “Anche perché riteniamo che non sia possibile usare la tecnica della sabbiatura in condizioni di completa sicurezza, se non a fronte di costi altissimi che le aziende non si potrebbero mai permettere”. Dunque la richiesta è la messa al bando di quel tipo di jeans. “Anche perché - prosegue Lucchetti – esistono tecniche alternative per scolorire il denim: c'è la sbiancatura manuale con graffiatura, quella con enzimi, la tecnica di stone-washing”.
Insomma, il look vintage si può ancora salvare. Ma le aziende che dicono? Alcune hanno già bandito pubblicamente il sandblasting o lo stanno facendo, come Levi-Strauss, H&M, C&A, Esprit e Gucci. Le altre invece non hanno ancora preso posizioni chiare e soddisfacenti, almeno secondo la campagna.
I jeans sono sempre stati la divisa d'ordinanza delle manifestazioni. Ora però sono passati dall'altro lato della barricata finendo nel mirino dei contestatori. La giornata dedicata agli innamorati è infatti anche l'inizio di una settimana di mobilitazioni europee ed italiane in cui una serie di Ong e associazioni per i diritti umani chiedono di mettere al bando il denim sabbiato. Già, proprio quei pantaloni che magari sono nell'armadio, comprati a caro prezzo per un look vintage e vagamente anticonformista, arruffato con stile. Perché quelle chiazze biancastre che ottengono l'effetto di invecchiare il tessuto e di impreziosirlo (almeno dal punto di vista del prezzo sul cartellino) sono ottenute attraverso una tecnica da muratore che si chiama sabbiatura. Anche se il termine inglese, sandblasting (derivato da sand, sabbia e blast, esplosione), rende molto meglio: infatti il processo erosivo sul denim avviene attraverso dei compressori ad aria che sparano la sabbia.
Il problema è che questi materiali abrasivi contengono grandi quantità di silice la quale, spargendosi nell'ambiente lavorativo, finisce con l'essere inalata dai lavoratori. L'esposizione alla silice provoca la silicosi, una malattia polmonare incurabile che nei casi più gravi porta alla morte.
La questione della sabbiatura è emersa per la prima volta in Turchia nel 2005, quando i medici si sono accorti della diffusione di questa patologia – un tempo associata ai minatori - tra i lavoratori delle fabbriche di jeans. Addirittura all'inizio era stata scambiata per tubercolosi. Ma poi con il crescere dei casi e della loro gravità i dottori hanno collegato la silicosi al sandblasting.
Da lì è nato un comitato di solidarietà che ha successivamente portato a una coalizione internazionale: perché i jeans sabbiati non sono prodotti solo in Turchia – dove una legge nel 2009 li ha banditi, anche se rimane il problema del sommerso – ma pure in molti altri Paesi, dal Pakistan all'Egitto, dalla Cina al Messico.
A guidare l'iniziativa è la Campagna Abiti Puliti, un insieme di gruppi sindacali e di Ong che da anni si battono per rendere più trasparente ed equo-solidale il settore tessile. Dopo mesi di confronti più sotterranei con i marchi dell'abbigliamento, la campagna è uscita allo scoperto nel novembre scorso e ora lancia una settimana di azioni, rivolgendosi da un lato ai produttori di jeans perché prendano posizioni chiare, e dall'altro al grande pubblico, cui si chiede di partecipare, soprattutto attraverso la rete.
Cosa possono fare i consumatori allora? Oltre a non comprare i jeans incriminati, possono sottoscrivere un appello alle aziende perché smettano di usare il sandblasting; oppure mostrare il loro sostegno pubblicando il logo dell'iniziativa come foto del proprio profilo su Facebook; o meglio ancora una propria foto in jeans con lo slogan anti-sabbiatura in bella vista, postandola anche sulla bacheca della pagina di Abiti Puliti. O ancora, per i più temerari, distribuire in giro il simbolo della campagna sotto forma di tasca virale.
“Vogliamo portare il tema all'attenzione dei consumatori”, ha commentato a Sky.it Deborah Lucchetti, portavoce italiana della campagna. “Anche perché riteniamo che non sia possibile usare la tecnica della sabbiatura in condizioni di completa sicurezza, se non a fronte di costi altissimi che le aziende non si potrebbero mai permettere”. Dunque la richiesta è la messa al bando di quel tipo di jeans. “Anche perché - prosegue Lucchetti – esistono tecniche alternative per scolorire il denim: c'è la sbiancatura manuale con graffiatura, quella con enzimi, la tecnica di stone-washing”.
Insomma, il look vintage si può ancora salvare. Ma le aziende che dicono? Alcune hanno già bandito pubblicamente il sandblasting o lo stanno facendo, come Levi-Strauss, H&M, C&A, Esprit e Gucci. Le altre invece non hanno ancora preso posizioni chiare e soddisfacenti, almeno secondo la campagna.