"Vivo altrove": perché la Spagna è ambita dagli italiani?
MondoNegli ultimi dieci anni, Madrid e dintorni hanno vissuto un boom di immigrazione italiana. Merito dell'immagine di un paese dinamico e invitante. Lo racconta Claudia Cucchiarato in un saggio edito da Bruno Mondadori. Leggine un estratto
di Claudia Cucchiarato
Secondo le rilevazioni dell’AIRE, dei circa quattro milioni di italiani residenti all’estero, solo poco più di 85 000 vivono in Spagna.
In termini assoluti, questo paese si classifica al dodicesimo posto nella lista dei più popolati dai nostri connazionali. Ciò nonostante, una lettura prospettica dei dati permette di estrapolare una tendenza unica e interessante.
E cioè che la Spagna ha vissuto negli ultimi dieci anni un boom di immigrazione italiana. Un fenomeno di massa che riguarda soprattutto i giovani e che, in proporzione, non ha paragoni in nessun altro stato del mondo.
Le ragioni di questa tendenza sono molteplici. Il motivo contingente risiede nel fatto che da qualche anno la Spagna, soprattutto Barcellona, “va di moda” tra gli italiani di età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni.
E tutto questo ben prima che il film Vicky Cristina Barcelona, con cui Woody Allen ha stregato mezzo mondo, mostrasse l’impennata di popolarità della penisola iberica.
Lo dimostrano anche alcuni spot (esistono esempi di pubblicità che associano la Spagna con la “felicità” stessa), i flussi aerei (quasi tutti gli aeroporti italiani offrono quotidianamente voli diretti a prezzi stracciati per Barcellona e Madrid), le tendenze del turismo e i sondaggi dei progetti europei Erasmus e Leonardo.
Incidono sul boom anche il successo di altri film, come L’appartamento spagnolo, di Cédric Klapisch (2002), o Manuale d’amore (2005) e Manuale d’amore 2 (2007), di Giovanni Veronesi. E di alcuni programmi televisivi, come si diceva all’inizio di questo capitolo e come spiega Marco Bozzer alla voce “Barcellona” del Libro dell’anno 2009 della Treccani.
«Nel 2006, una trasmissione di MTV Italia, Italo-spagnolo, condotta dallo showman Fabio Volo, proiet - tò l’immagine festiva e disincantata di una città che stava vivendo il suo periodo più dolce e dinamico. Il programma televisivo ebbe un’ampia e positiva ripercussione su un pubblico di giovani italiani alla ricerca di un “Eldorado” in cui poter realizzare il proprio sogno di vita e professionale.»
Il motivo storico dell’amore degli italiani per la Spagna è la vicinanza: geografica, culturale, linguistica e gastronomica. Chi emigra in Spagna si sente “un po’ come a casa”. Non avverte le difficoltà che in altri paesi si possono riscontrare nella comprensione della lingua, nella lunghezza e nel costo del viaggio per far visita alla famiglia a Pasqua o a Natale, nella distanza culturale e sociale.
L’analisi dei dati che offrono vari studi, come quelli della Fondazione Migrantes della Caritas (Rapporto Italiani nel Mondo 2008) o dell’Eurispes (Rapporto sui giovani italiani all’estero, del 2006), che citano le cifre dell’AIRE, indicano una precisa tendenza a vedere la Spagna come un paese invitante, dinamico e, nonostante la crisi economico-finanziaria che l’ha sconvolto dall’autunno del 2008, ancora promettente, soprattutto dal punto di vista delle politiche sociali.
Una ricerca del consorzio universitario Almalaurea rivela che nell’ultimo decennio si è triplicato il numero di giovani italiani che nei cinque anni successivi alla laurea – soprattutto nei rami letterario, linguistico, ingegneristico ed economico – si trasferiscono all’estero per cercare lavoro. E oltre la metà ritiene molto improbabile, se non quasi impossibile, il rientro in patria.
Le motivazioni sono diverse, vanno dall’effettivo coronamento del sogno lavorativo (è alta la percentuale di chi all’estero trova un lavoro soddisfacente più in fretta e meglio rispetto a chi rimane in Italia) al fidanzamento (una storia d’amore con un autoctono o con un altro straniero, anche connazionale, residente nel luogo della “fuga” è un motivo ricorrente tra chi decide di trasferirsi definitivamente) o, per una parte molto significativa dei casi, alla volontà di non tonare indietro e di mettere il maggior numero di chilometri possibile tra sé e la casa paterna.
Quest’ultimo elemento è stato analizzato dal primo Rapporto comparativo tra famiglie, lavoro e reti sociali in Europa, curato da Chiara Saraceno, Manuela Olagnero e Paola Torrioni, e pubblicato a gennaio del 2010. «In Italia gran parte del welfare è affidato alle famiglie e gran parte delle famiglie non può permettersi di sostenere le spese di un figlio fuori di casa. Altrove, come nel Nord Europa, dove le borse di studio vengono assegnate in modo più ampio e con criteri diversi e dove esiste un vero welfare per i giovani, è considerato anomalo che un ragazzo resti in famiglia.»
L’analisi delle tre ricercatrici viene confermata dai dati dell’ISAE (l’Istituto di Studi e Analisi Economica) che dimostrano come un lavoro, anche precario o a tempo parziale, sia alla base della scelta di lasciare il nido in tutta Europa.
Ma se si prendono in considerazione i dati relativi ai giovani che guadagnano, la percentuale italiana di chi resta a vivere con i genitori scende dal 70 al 60%, mentre quella svedese precipita al 12%. Nel 2008, i “cervelli in fuga” rappresentavano già più del 3% dei 300 000 laureati occupati italiani coinvolti nell’indagine di Almalaurea (in totale i laureati italiani in quell’anno sono stati circa 500 000).
L’espatrio avviene perché di solito si guadagna di più: in media 2078 euro contro i 1332 di chi rimane in Italia. Uno scarto sufficientemente eloquente, che dovrebbe far scattare più di un campanello di allarme nel sistema industriale e sociale italiano. Ma che purtroppo finora non ha avuto nessun effetto sulle politiche di inserimento lavorativo o nell’incentivo all’assunzione di neolaureati.
Scrive Andrea Cammelli nell’XI Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati elaborato nel mese di marzo del 2009: Fra le criticità che contraddistinguono il nostro paese, ci sono il basso livello di risorse destinate all’istruzione, l’insufficiente spesa per ricerca e sviluppo, l’inefficienza che spesso accompagna l’uno e l’altro, la ridotta presenza di capitale umano di alto livello nella popolazione (non solo nelle classi di età più avanzata, ma anche in quelle giovanili), il prevalere di piccole e piccolissime imprese in difficoltà a sopportare i costi di personale con titoli di studio universitari e così anche la loro limitata capacità a competere sui mercati internazionali.
Secondo il Rapporto Almalaurea 2008, «quasi la metà di coloro che si trasferiscono all’estero lo fa per migliori offerte di lavoro» e la maggior parte di questi giovani tra i venticinque e i trentacinque anni risiedono nei paesi più “attraenti” d’Europa: nel Regno Unito (preferito dal 19,2% dei migranti), in Francia (12,6%) e in Spagna (11,4%).
Dopo i due must dell’emigrazione giovane di sempre, quindi, la Spagna si colloca nel 2008 sul podio con un insospettato terzo posto tra i paesi presi di mira dai nostri laureati, superando anche gli Stati Uniti e la Germania. È un dato nuovo e interessante questo, perché fino alla fine degli anni ottanta la penisola iberica era considerata una nazione di serie B, non abbastanza sviluppata a livello economico e sociale per accogliere le nostre giovani promesse.
Negli ultimi vent’anni, il paese governato da Zapatero si è trasformato in una specie di “terra promessa”, come conferma anche Irene Tinagli nel libro di successo Talento da svendere. All’avanguardia nelle riforme sociali, culturali e politiche, la Spagna ha vissuto un boom economico, fisiologico dopo la fine del franchismo, che l’ha resa interessante non più solo per i turisti (in costante aumento), i ristoratori (onnipresenti) o gli studenti Erasmus (gli universitari italiani prediligono fra tutti i paesi proprio la Spagna), ma anche per i ricercatori e i lavoratori altamente specializzati.
E infatti, anche la Tinagli (nata a Empoli nel 1977 e laureatasi alla Bocconi nel 1998, un nome conosciuto a tutti quanti in Italia si sono occupati di mobilità sociale, opportunità lavorative e cervelli in fuga), dopo aver sbarcato il lunario come ricercatrice in Public Policy presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh, dall’estate del 2009 è docente di Economia delle Imprese all’Università Carlos III di Madrid.
© Pearson Italia SpA
Tratto da Claudia Cucchiarato, Vivo altrove, Bruno Mondadori, pp.240, euro 18
Claudia Cucchiarato giornalista, è nata a Treviso nel 1979 e vive a Barcellona dal 2005. Scrive per “l’Unità” e “la Repubblica” in Italia, e per "La Vanguardia" in Spagna. Vivo altrove è il suo primo libro, ma soprattutto il suo modo di dare voce a chi, come lei, ha scelto di trasferirsi in un altro paese. Il blog del libro è www.vivoaltrove.it.
Secondo le rilevazioni dell’AIRE, dei circa quattro milioni di italiani residenti all’estero, solo poco più di 85 000 vivono in Spagna.
In termini assoluti, questo paese si classifica al dodicesimo posto nella lista dei più popolati dai nostri connazionali. Ciò nonostante, una lettura prospettica dei dati permette di estrapolare una tendenza unica e interessante.
E cioè che la Spagna ha vissuto negli ultimi dieci anni un boom di immigrazione italiana. Un fenomeno di massa che riguarda soprattutto i giovani e che, in proporzione, non ha paragoni in nessun altro stato del mondo.
Le ragioni di questa tendenza sono molteplici. Il motivo contingente risiede nel fatto che da qualche anno la Spagna, soprattutto Barcellona, “va di moda” tra gli italiani di età compresa tra i venticinque e i trentacinque anni.
E tutto questo ben prima che il film Vicky Cristina Barcelona, con cui Woody Allen ha stregato mezzo mondo, mostrasse l’impennata di popolarità della penisola iberica.
Lo dimostrano anche alcuni spot (esistono esempi di pubblicità che associano la Spagna con la “felicità” stessa), i flussi aerei (quasi tutti gli aeroporti italiani offrono quotidianamente voli diretti a prezzi stracciati per Barcellona e Madrid), le tendenze del turismo e i sondaggi dei progetti europei Erasmus e Leonardo.
Incidono sul boom anche il successo di altri film, come L’appartamento spagnolo, di Cédric Klapisch (2002), o Manuale d’amore (2005) e Manuale d’amore 2 (2007), di Giovanni Veronesi. E di alcuni programmi televisivi, come si diceva all’inizio di questo capitolo e come spiega Marco Bozzer alla voce “Barcellona” del Libro dell’anno 2009 della Treccani.
«Nel 2006, una trasmissione di MTV Italia, Italo-spagnolo, condotta dallo showman Fabio Volo, proiet - tò l’immagine festiva e disincantata di una città che stava vivendo il suo periodo più dolce e dinamico. Il programma televisivo ebbe un’ampia e positiva ripercussione su un pubblico di giovani italiani alla ricerca di un “Eldorado” in cui poter realizzare il proprio sogno di vita e professionale.»
Il motivo storico dell’amore degli italiani per la Spagna è la vicinanza: geografica, culturale, linguistica e gastronomica. Chi emigra in Spagna si sente “un po’ come a casa”. Non avverte le difficoltà che in altri paesi si possono riscontrare nella comprensione della lingua, nella lunghezza e nel costo del viaggio per far visita alla famiglia a Pasqua o a Natale, nella distanza culturale e sociale.
L’analisi dei dati che offrono vari studi, come quelli della Fondazione Migrantes della Caritas (Rapporto Italiani nel Mondo 2008) o dell’Eurispes (Rapporto sui giovani italiani all’estero, del 2006), che citano le cifre dell’AIRE, indicano una precisa tendenza a vedere la Spagna come un paese invitante, dinamico e, nonostante la crisi economico-finanziaria che l’ha sconvolto dall’autunno del 2008, ancora promettente, soprattutto dal punto di vista delle politiche sociali.
Una ricerca del consorzio universitario Almalaurea rivela che nell’ultimo decennio si è triplicato il numero di giovani italiani che nei cinque anni successivi alla laurea – soprattutto nei rami letterario, linguistico, ingegneristico ed economico – si trasferiscono all’estero per cercare lavoro. E oltre la metà ritiene molto improbabile, se non quasi impossibile, il rientro in patria.
Le motivazioni sono diverse, vanno dall’effettivo coronamento del sogno lavorativo (è alta la percentuale di chi all’estero trova un lavoro soddisfacente più in fretta e meglio rispetto a chi rimane in Italia) al fidanzamento (una storia d’amore con un autoctono o con un altro straniero, anche connazionale, residente nel luogo della “fuga” è un motivo ricorrente tra chi decide di trasferirsi definitivamente) o, per una parte molto significativa dei casi, alla volontà di non tonare indietro e di mettere il maggior numero di chilometri possibile tra sé e la casa paterna.
Quest’ultimo elemento è stato analizzato dal primo Rapporto comparativo tra famiglie, lavoro e reti sociali in Europa, curato da Chiara Saraceno, Manuela Olagnero e Paola Torrioni, e pubblicato a gennaio del 2010. «In Italia gran parte del welfare è affidato alle famiglie e gran parte delle famiglie non può permettersi di sostenere le spese di un figlio fuori di casa. Altrove, come nel Nord Europa, dove le borse di studio vengono assegnate in modo più ampio e con criteri diversi e dove esiste un vero welfare per i giovani, è considerato anomalo che un ragazzo resti in famiglia.»
L’analisi delle tre ricercatrici viene confermata dai dati dell’ISAE (l’Istituto di Studi e Analisi Economica) che dimostrano come un lavoro, anche precario o a tempo parziale, sia alla base della scelta di lasciare il nido in tutta Europa.
Ma se si prendono in considerazione i dati relativi ai giovani che guadagnano, la percentuale italiana di chi resta a vivere con i genitori scende dal 70 al 60%, mentre quella svedese precipita al 12%. Nel 2008, i “cervelli in fuga” rappresentavano già più del 3% dei 300 000 laureati occupati italiani coinvolti nell’indagine di Almalaurea (in totale i laureati italiani in quell’anno sono stati circa 500 000).
L’espatrio avviene perché di solito si guadagna di più: in media 2078 euro contro i 1332 di chi rimane in Italia. Uno scarto sufficientemente eloquente, che dovrebbe far scattare più di un campanello di allarme nel sistema industriale e sociale italiano. Ma che purtroppo finora non ha avuto nessun effetto sulle politiche di inserimento lavorativo o nell’incentivo all’assunzione di neolaureati.
Scrive Andrea Cammelli nell’XI Rapporto sulla condizione occupazionale dei laureati elaborato nel mese di marzo del 2009: Fra le criticità che contraddistinguono il nostro paese, ci sono il basso livello di risorse destinate all’istruzione, l’insufficiente spesa per ricerca e sviluppo, l’inefficienza che spesso accompagna l’uno e l’altro, la ridotta presenza di capitale umano di alto livello nella popolazione (non solo nelle classi di età più avanzata, ma anche in quelle giovanili), il prevalere di piccole e piccolissime imprese in difficoltà a sopportare i costi di personale con titoli di studio universitari e così anche la loro limitata capacità a competere sui mercati internazionali.
Secondo il Rapporto Almalaurea 2008, «quasi la metà di coloro che si trasferiscono all’estero lo fa per migliori offerte di lavoro» e la maggior parte di questi giovani tra i venticinque e i trentacinque anni risiedono nei paesi più “attraenti” d’Europa: nel Regno Unito (preferito dal 19,2% dei migranti), in Francia (12,6%) e in Spagna (11,4%).
Dopo i due must dell’emigrazione giovane di sempre, quindi, la Spagna si colloca nel 2008 sul podio con un insospettato terzo posto tra i paesi presi di mira dai nostri laureati, superando anche gli Stati Uniti e la Germania. È un dato nuovo e interessante questo, perché fino alla fine degli anni ottanta la penisola iberica era considerata una nazione di serie B, non abbastanza sviluppata a livello economico e sociale per accogliere le nostre giovani promesse.
Negli ultimi vent’anni, il paese governato da Zapatero si è trasformato in una specie di “terra promessa”, come conferma anche Irene Tinagli nel libro di successo Talento da svendere. All’avanguardia nelle riforme sociali, culturali e politiche, la Spagna ha vissuto un boom economico, fisiologico dopo la fine del franchismo, che l’ha resa interessante non più solo per i turisti (in costante aumento), i ristoratori (onnipresenti) o gli studenti Erasmus (gli universitari italiani prediligono fra tutti i paesi proprio la Spagna), ma anche per i ricercatori e i lavoratori altamente specializzati.
E infatti, anche la Tinagli (nata a Empoli nel 1977 e laureatasi alla Bocconi nel 1998, un nome conosciuto a tutti quanti in Italia si sono occupati di mobilità sociale, opportunità lavorative e cervelli in fuga), dopo aver sbarcato il lunario come ricercatrice in Public Policy presso la Carnegie Mellon University di Pittsburgh, dall’estate del 2009 è docente di Economia delle Imprese all’Università Carlos III di Madrid.
© Pearson Italia SpA
Tratto da Claudia Cucchiarato, Vivo altrove, Bruno Mondadori, pp.240, euro 18
Claudia Cucchiarato giornalista, è nata a Treviso nel 1979 e vive a Barcellona dal 2005. Scrive per “l’Unità” e “la Repubblica” in Italia, e per "La Vanguardia" in Spagna. Vivo altrove è il suo primo libro, ma soprattutto il suo modo di dare voce a chi, come lei, ha scelto di trasferirsi in un altro paese. Il blog del libro è www.vivoaltrove.it.