"Il ritorno": l'Iraq raccontato da Giuliana Sgrena

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Giuliana Sgrena - particolare della coperina del libro edito da Feltrinelli
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A cinque anni dal suo rapimento, la giornalista del "manifesto" è tornata a Baghdad. Dal viaggio è nato un reportage, pubblicato da Feltrinelli, che racconta la vita quotidiana nella "terra dei due fiumi" dopo la guerra americana. LEGGINE UN ESTRATTO

di Giuliana Sgrena

Baghdad, ottobre 2009

Dietro gli alberi di al Jadriya spunta prima la mezzaluna con la stella, poi appare tutta la cupola color turchese.
Riconosco la Moschea Mustafa, è unica nel suo genere, formata solo da un grande guscio, senza una base, è la moschea dell’Università di Baghdad. Vorrei avvicinarmi ma le strade sono bloccate, c’è stato un incendio all’interno del campus, dicono. Notizie simili non sono mai né confermate né smentite. Il paesaggio è cambiato, ovunque fervono lavori di cui non sempre si percepiscono le finalità.

Qui, a qualche centinaio di metri, sono stata rapita il 4 febbraio del 2005. Un brivido. Non riesco a staccare gli occhi dalla moschea alla ricerca di quei blocchi di cemento che ci avevano impedito la fuga, ma siamo sulla superstrada e non si può rallentare. Non potendomi avvicinare, riesco solo a immaginare quel luogo, ma quella che stiamo percorrendo è proprio la superstrada usata dai miei rapitori per fuggire con me, il loro ostaggio.
Quel giorno non c’era traffico, era venerdì, e in ogni caso nessuno mi avrebbe notata. Per giorni, mesi, anni mi ha ossessionato l’idea di rivedere quei posti: quello del rapimento, ma soprattutto quello dove Nicola Calipari ha perso la vita proteggendomi dal fuoco “amico” americano.
Ogni tanto mi rimbomba ancora nelle orecchie quella raffica di mitragliatrice. Forse, se rivedrò quel luogo, non la sentirò più. Un’idea fissa mi perseguita: quel posto è il passaggio indispensabile nel mio viaggio di recupero di me stessa, o di quella parte di me che è sopravvissuta. È quello il punto in cui si è consumato il passaggio alla mia seconda vita, o semplicemente alla vita del dopo.

Quando sono tornata la prima volta a Baghdad, nel giugno 2009, ho cercato invano qualcuno che mi accompagnasse: la strada è ancora zona di sicurezza, mi dicevano. Sicurezza per chi? Il fatto è che nessuno voleva assumersi la responsabilità. Solo l’ultima sera, prima di partire, percorrendo il nuovo pezzo di autostrada che divide in due la zona verde, avevo intravisto la possibilità di avvicinarmi a quella strada, ma era troppo tardi, quasi mezzanotte, troppo pericoloso. Avevo rimandato a un viaggio successivo. Ed eccomi qui nuovamente, quattro mesi dopo, in ottobre. L’ossessione non mi abbandona.
La tensione è aumentata, si respira nell’aria, soprattutto dopo gli ultimi attentati, come trovare qualcuno che mi accompagni? Sto quasi per rinunciare quando mi presentano un generale della polizia disposto a soddisfare la mia richiesta. Non mi sembra vero, non ci credo finché non arriva all’appuntamento, in ritardo per il traffico e le strade bloccate (anche per un generale!). Ripercorriamo la strada già percorsa, costeggiando al Jadriya, rivedo la Moschea Mustafa, per poi passare dalla via di fuga dei miei sequestratori a quella della nostra via di fuga verso l’aeroporto.

Proprio su questa strada sorgerà la nuova ambasciata italiana, oltre a quella americana già visibile nella sua imponenza, è la rappresentanza diplomatica statunitense più grande nel mondo, più estesa del Vaticano e sei volte più ampia del compound delle Nazioni Unite a New York. Più che di un’ambasciata si tratta di una fortezza, costata settecento milioni di dollari, che ospiterà mille impiegati protetti da forze mercenarie. Non dà certo l’impressione di essere l’ambasciata di chi si appresta a ritirarsi (militarmente) dall’Iraq. Una fortezza che alimenta timori piuttosto che dare la certezza di un alleato solido. Gli italiani non erano forse alleati degli americani quando ci hanno sparato? Cerco di allontanare questi pensieri e di tornare alla realtà. Mi sembra di riconoscere alcuni punti di riferimento: la torre delle telecomunicazioni che era servita a orientare Andrea Carpani, l’agente del Sismi alla guida della macchina, una moschea, poi il sottopassaggio, la salita, ma poi mi perdo, di lato ci sono case che non avevo visto, forse perché ero scioccata o semplicemente perché era buio, non so. E quando comincia la zona non abitata – non c’erano edifici dove siamo stati mitragliati – non si vede più il prato perché la strada è costeggiata dagli onnipresenti lastroni di cemento che impediscono la vista e stravolgono ogni paesaggio.

Ripercorriamo la strada, mi prende un’angoscia terribile: possibile che non ritrovi quel posto? È stato cancellato? Sono io che non lo vedo o non lo voglio vedere? È come se avessi perso il senso dell’orientamento, mi manca qualche passaggio, i punti di riferimento che pensavo scolpiti nella memoria – non mi succede forse ogni giorno di dimenticare qualcosa? –, ma questa scena no, è fissa nella mia mente. O forse mi ostino a ricordare mentre l’elaborazione del lutto fa il suo corso? Notando il mio sgomento, una delle persone che mi accompagna mi invita a lasciar perdere: “Perché vuoi soffrire ancora, non serve, devi continuare la tua vita”. Forse ha ragione lui, convengo, non voglio più soffrire, forse le difese che mi sono costruita mi impediscono di ritrovare quel luogo, Baghdad è cambiata e anch’io sono diversa.

Avevo già vissuto una sensazione simile in aereo, il 7 settembre 2009. Stavo andando a Crema per un dibattito e mi sono accorta di non ricordare il nome del soldato americano che ci aveva sparato. Una strana disperazione mi aveva assalito e non potevo chiedere aiuto a nessuno. Appena scesa dall’aereo a Orio al Serio avevo chiamato Pier: “Chi mi ha sparato? Vuoi dire Lozano?” mi aveva risposto, sorpreso. Forse devo solo ricominciare a vivere la mia vita senza rincorrere i ricordi, questo però non può voler dire cancellare la memoria. Del resto, non sarebbe possibile: sono qui con una troupe greca per registrare un documentario sulla vita dei giornalisti in Iraq e sulla mia drammatica esperienza, quindi sono continuamente sollecitata a ricordare non solo la mia storia, ma anche quella di altri colleghi, che non ci sono più, come José Couso, Taras, Tayoub e altri. Quando arrivo in albergo, il Palestine, i miei amici greci mi soccorrono con una bottiglia di whisky, questa notte per dormire non basterà il sonnifero.
© Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano. Prima edizione in “Serie Bianca” febbraio 2010

Tratto da Giuliana Sgrena, Il ritorno. Dentro il nuovo Iraq, Feltrinelli, pp. 140, euro 13


Giuliana Sgrena
, inviata de “ il manifesto ”, ha sempre seguito con grande passione l'evolversi della situazione in Iraq, Somalia, Palestina, Afghanistan e Algeria, con particolare attenzione alla condizione delle donne. Collabora anche con RaiNews24, il settimanale tedesco “Die Zeit”, la radio della Svizzera italiana e riviste di politica internazionale. Tra i libri pubblicati: Fuoco amico (Feltrinelli 2005) , tradotto in numerose lingue; Il prezzo del velo (Feltrinelli 2008) , tradotto anche nei paesi arabi.

Giuliana Sgrena ospite di SKY Tg24 Pomeriggio:

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