Nelle pagine di Bianciardi Garibaldi è uno straniero in patria

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Filippo Maria Battaglia

IL LIBRO DELLA SETTIMANA Minimum fax riporta in libreria un breve libro scritto da un grande nome del secondo Novecento italiano. Pensato per umanizzare la vita e le imprese del Generale, riletto oggi sembra  perfetto per ricordarne il valore decisivo nella nostra storia

Si sa che erano mille ma si sa anche che il numero, a seconda delle fonti, varia. Per l’elenco ufficiale stilato dal ministero della Guerra, ad esempio, i volontari sbarcati a Marsala l'11 maggio 1860 erano 1088. Tra loro, c’erano tredici trentini, vari ungheresi e soprattutto un unico francese: si chiamava “Garibaldi Giuseppe del fu Domenico, nato a Nizza il 4 luglio 1807”. 

Certo, Garibaldi francese fa un certo effetto ma è una conseguenza inevitabile: come racconta Luciano Bianciardi, “Nizza, quando Garibaldi ci nacque, era da qualche anno nelle manine repaci di Napoleone Primo. E’ vero che nel 1815, quando il nostro eroe cominciava a leggere sul sillabario, la città era tornata sotto la corona piemontese, ma è anche vero che nel 1859, prima che cominciasse la spedizione di Sicilia, il Piemonte l’aveva ceduta, daccapo e definitivamente, stavolta, all’altro Napoleone, il Piccolo, il Terzo. Un regalo, questo, che Garibaldi mai più perdonò al conte di Cavour, il quale lo aveva reso ‘straniero in patria’.

E’ da qui che prende avvio il “Garibaldi” a firma di Luciano Bianciardi, una delle grandi voci irregolari della letteratura italiana del Novecento, ripescato dall'oblio da Minimum Fax (pp. 153, euro 14, postfazione di Giancarlo De Cataldo).

 

Il carboncino di un capo naturale

Come ricorda Fabio Stassi nella sua levigata nota biografica, al Risorgimento Bianciardi  durante la sua vita dedica ben cinque libri: l’ultimo è proprio questo, uscito postumo nel 1972. Una conseguenza inevitabile per chi, come l’autore di “La vita agra”, “si sente per davvero un ex garibaldino deluso da tutto, l’ultima camicia rossa della storia”.

In meno di centocinquanta pagine, Bianciardi traccia un carboncino vivido del Generale, alternando l’aneddoto alla consueta scrittura vivace e scapigliata. Ci racconta l’infanzia e poi l’adolescenza di un ragazzo che presto diventa “un capo: e non perché si imponga al suo prossimo, ma perché il prossimo lo sceglie, e gli va dietro”. Descrive le prime avventure, poi si sofferma sulle imprese: il Sud America, la prima guerra d’indipendenza, la repubblica romana, fino all’imbarco per la Sicilia, “una faccenda frettolosa e disordinata perché giustamente Garibaldi voleva evitare di dare troppo nell’occhio”.

 

Il cortocircuito della storia

Bianciardi racconta ovviamente anche le delusioni, il tramonto, la morte e infine i funerali in una Caprera affollata da ministri e delegati. “Subito gli fecero il monumento - spiega - lo misero, a cavallo o senza, in cima al piedistallo, decisi a non farlo più scendere”. Poi aggiunge: “Ancora oggi, per molta gente, il Garibaldi della leggenda torna più comodo del Garibaldi della realtà. Noi, modestamente, abbiamo cercato di farlo scendere dal piedistallo, di ritrovarlo uomo”. 

Così scrive il grande toscano agli inizi degli anni Settanta, prima, molto tempo prima, che l’ondata revisionista si abbattesse sul Generale. Ed è forse per questo che oggi il suo Garibaldi ha un sapore amaro e un poco paradossale: perché questo profilo, scritto mezzo secolo fa per umanizzare un eroe, oggi sembra fatto apposta per ricordare a tutti gli scettici il reale valore di un personaggio decisivo della nostra storia.

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