IL LIBRO DELLA SETTIMANA Minimum Fax riporta in libreria un'analisi del grande scrittore sui pericoli dell'incubo atomico scritta negli anni Settanta che ci racconta anche molto della sua opera e del rapporto con il suo tempo
Ci sono libri che sono importanti per ciò che rievocano più che per ciò che sono in grado di dirci, e Il “Gigante cieco” di Carlo Cassola è uno di questi.
Nella bandella della nuova edizione (pp. 161, euro 13), Minimum fax ricorda che è uscito nel 1976, al tempo dell’incubo atomico e spiega che è “un discorso accorato sulla necessità di una rivoluzione culturale”, aggiungendo che “ci appare ancora esplosivo e spaventosamente attuale”. Tutto condivisibile o quasi, perché forse, su quest’ultimo punto, si può essere in disaccordo.
Se è vero infatti, come ricorda Matteo Nucci nella postfazione, che l'immagine di questo gigante cieco (l’umanità) che cammina inconsapevole sull’orlo dell’abisso è di grande impatto, l’analisi che fa seguire Cassola sembra invece soffrire del clima ideologico in cui è stata scritta. Clima che Cassola ha sempre avversato e subìto ma che comunque si avverte, nettissimo, nella lettura. Ed è proprio questa percezione, che si sente quasi a fior di pelle, a rendere il saggio singolare: perché in grado di rievocare, sebbene in filigrana, la vita di Cassola e soprattutto la sua estraneità alle mode e alle ideologie.
Un crudele epiteto
Ancora oggi, quando si parla di Cassola, che è uno degli scrittori più letti e apprezzati del nostro dopoguerra, il primo, inarrestabile, istinto è legarlo subito a quel soprannome crudele, “Liala della letteratura”, affibbiato ormai quasi sessant’anni fa dal Gruppo ‘63. Un epiteto, in realtà, che è stato solo l’ultimo di un'infinita serie di attacchi subiti sin dai suoi esordi letterari e condensati tra gli altri nella voce di Pier Paolo Pasolini durante la presentazione al Premio Strega della Ragazza di Bube. Era il 1960 e - come ricorda Fabio Stassi nella levigata e dettagliata introduzione a questa nuova edizione - fu lui, Pasolini appunto, a leggere una poesia dal titolo eloquente (“In morte del realismo”) in cui attaccò il "neo-purista" Cassola, in quanto alfiere della “reazione stilistica” che “ora livella ogni cosa”, con l’intento di “restaurare la lingua” per “ridurla al grigiore dello stato”.
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La tensione a nascondere più che a esibire
"Ma era proprio questa la vera cifra stilistica di Cassola?", si chiede sempre Fabio Stassi, prima di ricordare come lo scrittore fosse in realtà il figlio di una delle due grandi linee letterarie italiane, quella che predilegeva l’asciuttezza al posto dell’espressionismo, il ritegno invece dello scandalo, il confronto piuttosto che il furore. Aggiungendo che quella produzione si era rinnovata negli anni mantenendo saldo un obiettivo: “Dare priorità al narratore, spogliare la frase da ogni orpello, esaltare il quotidiano e il dettaglio. Una tensione a nascondere più che a esibire che, a ben guardare, e per molti versi, non era meno rigorosa e anticonformista di quella dei suoi detrattori”.
La letteratura di consolazione? Un elogio, non un'accusa
Un'incomprensione radicale, riassunta magistralmente in poche righe dallo stesso Cassola e ora confluite nel Meridiano Mondadori curato da Alba Andreini: “Negli ultimi sei mesi - scriveva proprio a ridosso di quella polemica - ciascuno degli esponenti della neoavanguardia ha certo parlato di se stesso e delle sorti della letteratura più di quanto abbia fatto io in tutta la mia vita. Per loro, il dibattito è una necessità impellente, categorica. È, in fondo, la sola arma di cui disponga questa schiera di ideologi sfrenati che passano il loro tempo ad arrovellarsi, a distillare formule culturali destinate a sfiorire dopo un mese o due, ad unirsi in gruppi e sottogruppi, lanciando accuse in tutte le direzioni. L’ultimo loro bersaglio, a quanto se ne sa, è la 'letteratura di consolazione' e gli scrittori che, secondo loro, la praticano. Oltretutto non si sono neppure accorti che in realtà quella che essi credono sia un’accusa, è un altissimo elogio”.
Ecco: questo libro, “Il gigante cieco”, pur parlando in realtà di altro (catastrofe ambientale, guerra nucleare), si fa apprezzare innanzitutto per questo: perché ci ricorda, cioè, la grandezza di uno scrittore letto ma mai alla moda, e perché ci allerta sulle lenti deformanti della nostra comprensione.