ReSa Architects: “Costruire solo quando serve: così possiamo salvare la Terra"

Immaginare l'architettura come un teatro. Uno spazio dove la collettività è tutto, dove il corpo è il protagonista e i legami sociali, la trama. È questa l'idea portata avanti da ReSa Architects, lo studio indiano fondato dalle sorelle Shivani e Revati Shah. Vincitrici del Debut Award, il prestigioso riconoscimento della Triennale di architettura di Lisbona, le giovani progettiste di Mumbai ripensano il concetto di progettazione: non un'attività meccanica finalizzata alla semplice costruzione di un edificio, ma un'azione collettiva che implica - prima di una qualsiasi realizzazione - la conoscenza di un territorio e dei popoli che lo abitano. Secondo Shivani e Revati, il tradizionale approccio dell'architettura è fortemente legato alla “forma statica del disegno”, mentre il teatro è un'arte potente e versatile in grado di “abbracciare la natura fluida della realtà”, offrendo “nuove possibilità di interazione con le mutevoli condizioni di un territorio su cui si interviene”. Per ReSa Architects, al centro c'è la comunità, sempre. Da qui è nato “Sparshvilla”, un progetto che, realizzato in Maharashtra in India, concretizza l'idea di architettura immaginata dalle progettiste. “Prima di procedere con la costruzione, abbiamo visitato i villaggi vicini, fatto passeggiate e cercato modi più 'delicati' per entrare in contatto con un territorio completamente nuovo, al quale all'epoca eravamo estranee”, hanno raccontato a Sky Tg24 Insider. “Siamo restie alla realizzazione dei rendering, perché il progetto per noi è una pratica situazionale che tiene conto della comunità, di chi parla, di chi ascolta”, aggiungono. Per le architette, impegnate in progetti dalla forte impronta ecologica, la sensibilità verso l'ambiente deve essere “motore trainante” della pratica progettuale. “Se il cliente chiede di costruire una villa di 1.000 metri quadrati con un centro benessere, noi architetti dobbiamo chiederci: ma c'è davvero bisogno di così tanto? Se riducessimo di un terzo la grandezza di questa struttura, potremmo piantare alberi e dare più spazio alla natura”, sottolineano. “I progettisti devono fare un passo indietro: costruire meno e piantare di più”. Come è iniziata la vostra attività di architette? Abbiamo iniziato a lavorare come architette dopo esserci laureate all'Università di Mumbai. Dopo la laurea, Shivani è andata in Giappone a lavorare nello studio di Junya Ishigami, dove ha fatto uno stage di due mesi. Una volta tornata in India ha lavorato per tre anni in uno studio di Mumbai e successivamente ha frequentato la Bartlett School of Architecture della University College di Londra. Lì, ha seguito un corso sperimentale che univa l'architettura alle arti creative. I metodi legati al teatro, alla danza e alla coreografia sono diventati strumenti molto stimolanti per mettere in discussione alcuni aspetti dell’architettura che sentivamo limitanti. Avevamo dentro di noi la sensazione che nell'idea architettonica tradizionale qualcosa non funzionasse del tutto e abbiamo capito che è possibile fare architettura anche attraverso nuovi strumenti. Con il progetto “Sparshvilla” avete vinto il Debut Award alla Triennale di Architettura di Lisbona. Come è nata quest'opera? Il progetto è nato cinque anni fa, nel 2020. Un cliente, che aveva acquistato un appezzamento di terreno, ci ha chiesto di progettare qualcosa per lui. Quindi, ci siamo recate nell'area, che dista circa due ore di macchina da Mumbai, per una prima supervisione. E lì siamo state completamente conquistate dalla natura. Siamo tornate sul posto due volte, abbiamo campeggiato lì con le nostre tende, abbiamo visitato i villaggi vicini, fatto passeggiate e cercato modi più “delicati” per entrare in contatto con un territorio completamente nuovo, al quale all'epoca eravamo estranee. Così, abbiamo lentamente iniziato a lavorare dal punto di vista architettonico, prendendo semplicemente nota di tutte le piccole cose che vedevamo e che ci incuriosivano, parlando con i residenti dei villaggi limitrofi. Per voi l'architettura è un “processo sociale collettivo”. Cosa significa nello specifico? Il concetto di processo sociale collettivo viene utilizzato soprattutto in campo artistico. Nel tempo gli artisti hanno ampliato i propri confini abbandonando le gallerie per dedicarsi ad attività partecipative all'aperto e opere di land art. Così ci siamo dette: “Anche noi dovremmo farlo!”. Il campo dell'arte si è ampliato, mentre gli architetti sono rimasti fermi. Processo sociale collettivo, per noi, significa fare ciò che gli artisti hanno fatto con l'arte: spingere i confini dell'architettura. Tutto ciò che costruiamo esercita un impatto su molte più persone rispetto a quelle che ci commissionano un'opera. Per questo l'architettura è sociale. Un singolo individuo può pensare solo alla propria prospettiva, ma chi risente di un qualsiasi intervento su un territorio è, alla fine, il corpo collettivo. Noi, come ReSa Architects, siamo restie a realizzare rendering. Il progetto, per noi, è una pratica situazionale che tiene conto di chi parla, di chi ascolta, di quali materiali vengono scelti. Partiamo dalla quotidianità, piuttosto che da un magnifico disegno architettonico esclusivamente orientato al risultato. Durante la presentazione del vostro progetto sul palco della Triennale di architettura di Lisbona, vi siete posizionate in maniera opposta: Shivani guardava il pubblico, Revati gli dava le spalle. Perché questa scelta? Grazie per questa domanda. Il progetto che abbiamo realizzato è così stratificato che, quando ci è stato chiesto di presentarlo in pochi minuti, ci siamo chieste: “E ora come facciamo?”. L'ideale sarebbe stato portare il pubblico sul posto, ma ovviamente non era possibile. E così abbiamo detto: “Ok, dobbiamo portare tutto questo in un contesto completamente nuovo, con sguardi completamente estranei. E se offrissimo la sensazione di caos nella quale questo progetto è nato?”. Quando Revati ha voltato le spalle al pubblico, si è creato qualcosa di molto disorientante e inusuale, perché è molto rassicurante guardare negli occhi chi sta parlando. Ma quando non vediamo il volto, proviamo un senso di disagio. L'idea era proprio quella di ricreare quel disagio nel pubblico, facendo capire che è questo il disagio nel quale noi lavoriamo: non sappiamo chi prende le decisioni per noi perché le decisioni ci vengono imposte, non conosciamo i volti di chi le prende perché spesso ci sono logiche politiche o strategiche nel nascondere le identità di chi fa determinate scelte. Ecco cosa significa essere architetti in India oggi. Cosa vuol dire dedicarsi alla pratica architettonica in un contesto come quello indiano? In India, il contesto è multistrato, è un collage dove tutto si sovrappone ed è interconnesso. Se cambiamo un parametro X, cambiamo anche il resto. In architettura, ogni azione che compiamo crea una situazione e le dimensioni di un edificio cambiano completamente le relazioni materiali tra uomo e ambiente. Per questo, l'architettura è una pratica relazionale che si colloca sia nel tempo che nello spazio. Nei giorni scorsi, 20 milioni di persone a Nuova Delhi hanno respirato l'aria più inquinata del mondo. In che modo, secondo voi, l'architettura può affrontare la sfida dell'inquinamento che in India rappresenta un problema davvero urgente? Oggi quando otteniamo un appezzamento di terreno, la prima cosa che pensiamo è costruirci qualcosa sopra. Il più delle volte si tratta di terreni agricoli convertiti in terreni edificabili. E allora la domanda è: quale percentuale del territorio indiano viene convertita in terreno edificabile, mentre si continuano a ridurre le foreste e il verde di cui abbiamo bisogno per mantenere l'aria pulita? Quello che gli architetti dovrebbero fare è chiedersi quanto effettivamente abbiamo bisogno di costruire. Il cliente potrebbe chiederci di realizzare una villa di 1.000 metri quadrati con un centro benessere. Ma noi dovremmo domandarci: “C'è davvero bisogno di così tanto? Se riducessimo di un terzo le dimensioni di questo edificio potremmo piantare alberi”. Gli architetti dovrebbero fare un passo indietro, iniziare a piantare di più e costruire di meno. Così anche la natura può ritrovare il suo spazio. Come possiamo combinare l’architettura con la sostenibilità? Grazie alle ricerche sul campo e al nostro approccio attraverso l'ecologia della comunità, la sostenibilità è già integrata fin dalle fasi iniziali. In particolare, nel progetto Sparshvilla, prima della realizzazione della struttura abbiamo condotto uno studio approfondito dell'area, visitando i villaggi vicini per parlare con le comunità residenti. Una tribù locale ci ha accompagnate nella foresta per mostrarci le specie e le piante autoctone, guidandoci in questo processo di conoscenza del territorio. Ad esempio, ci indicavano una pianta e dicevano: “Questa la usiamo d’inverno per preparare le nostre verdure”. Esiste quindi una conoscenza locale, una forma di sapere sostenibile che le popolazioni autoctone portano avanti e condividono con noi. Ma è anche importante valutare l'impatto delle nostre azioni sul territorio stesso. Il modo migliore per rendere un progetto sostenibile non è entrare in un territorio una volta sola, ma osservare, raccogliere, rispondere, riflettere. E così il processo diventa più inclusivo. Un'altra soluzione sostenibile è legata alla decentralizzazione del team. Spesso gli architetti tendono ad assumere altri architetti, ma questo limita le prospettive. Dovremmo invece iniziare a includere climatologi, ambientalisti, etnografi, geografi, come già stiamo facendo in ReSa Architects. Dobbiamo creare una versione più “costellata” dello studio di architettura, per incorporare la sostenibilità in un senso più esteso. Come possiamo agire affinché l'architettura continui a essere rilevante nella società? Penso sia una questione di sensibilità. E uno dei metodi che possiamo utilizzare è cambiare gli strumenti attraverso i quali rappresentiamo e realizziamo gli edifici. Fino ad oggi gli architetti hanno realizzato strutture attraverso modelli e disegni, ma entrambi sono metodi incentrati sul controllo. Il disegno controlla il luogo, il modello controlla il sito. E gli architetti diventano, in un certo senso, egocentrici, convinti di poter controllare il mondo che li circonda. Noi, come ReSa Architects, riteniamo che tutti i metodi architettonici tradizionali siano limitanti. Ed è per questo che siamo passate al teatro come metodo di progettazione. Il teatro offre una realtà molto più fluida, ci permette di interagire con il cambiamento, ci fa guardare l'altro – dall'operaio che sta realizzando un edificio al cliente che lo ha commissionato e pagato. Abbiamo disegnato e riflettuto attraverso metodi teatrali, riducendo gli strumenti di controllo che l'educazione architettonica ci aveva insegnato quando abbiamo iniziato la nostra formazione anni fa. Quale messaggio volete trasmettere? Come architette, dobbiamo espandere i confini della nostra attività nel mondo. Non dovremmo limitarci al ruolo professionale che ci è stato assegnato, ma superare certi limiti perché il mondo ne ha bisogno. Noi, come ReSa Architects, vogliamo trasmettere l'idea che espandendo gli strumenti che abbiamo a disposizione come architette - in termini di rappresentazione grafica, percezione e pensiero - saremo in grado di ripensare il ruolo della nostra professione nell'epoca attuale e renderla più adatta ai tempi in cui viviamo. L'architettura, come l'arte, deve abbandonare i suoi confini tradizionali e andare oltre. Come immaginate il futuro delle città? La soluzione è partire dal basso verso l’alto: trovare una piccola fessura in cui entrare e, attraverso quella, creare effetti a catena. Crediamo che questi effetti possano, a poco a poco, influenzare l'intera città. Dobbiamo chiederci: “Possiamo fare scelte etiche per la città?”. Noi come individui singoli no, ma come collettivo sì. Con i nostri progetti, noi cerchiamo di espandere l'“io” verso il “collettivo”. E in questa transizione, possiamo davvero ripensare il reale significato della “città di tutti”. La forza delle città risiede anche nella loro porosità e permeabilità. Attualmente le città sono permeabili solo fisicamente – cioè accolgono corpi e infrastrutture – ma dovrebbero imparare ad accogliere anche ambienti, persone, culture. Quando una città accoglie chi arriva da fuori, anche se oggi i confini sono sempre più incerti per motivi politici ed economici, automaticamente diventa più resiliente. Finché resteremo permeabili, potremo affrontare qualsiasi tipo di futuro, positivo o incerto, e vivere in un flusso di libertà.

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ReSa Architects: “Costruire solo quando serve: così possiamo salvare la Terra"

Silvia Donnini