Pompeii Threnody, Cerith Wyn Evans: "Vorrei portare un po' di pace e compassione al mondo"

L’Antiquarium di Boscoreale ospita, fino all’11 gennaio, la mostra site‑specific dell’artista gallese Cerith Wyn Evans “Pompeii Threnody”, curata da Andrea Viliani, con Stella Bottai, Laura Mariano e Caterina Avataneo. Il titolo “Threnody” richiama un canto funebre greco, instaurando un dialogo silenzioso con la storia di Pompei e le sue trasformazioni. Fotoincisioni, installazioni luminose, lampade scultura, sono accostate ai reperti archeologici conservati in loco, così che il visitatore riflette sul tempo, sulla sopravvivenza e sulla vita, nei luoghi segnati dall’eruzione. Proprio a Pompei abbiamo incontrato e intervistato Cerith Wyn Evans. Quale sentimento la anima essendo qui oggi? Sono stato invitato qui ed è stato un privilegio essere stato invitato come artista a contribuire a una serie di eventi sotto il titolo di Pompeii Committments, dove credo ci sia una richiesta di invitare gli artisti a chiarire, a riflettere sulla vita e sulla cultura di come Pompei ci venga presentata oggi, come un pezzo di storia e su come la storia di ciò sia cambiata. Inoltre, attraverso i millenni, fin dal grande evento dell’eruzione di Pompei, il grande disastro. Qual è il senso profondo di questa mostra? Se c'è un significato profondo, riguarda la relazione tra ciò che l'opera osserva e la sua collocazione nello spazio. Quindi, in un certo senso, penso che questa mostra si possa considerare in termini di tre aspetti. Quali sono, in inglese? Si parla di omonimi. Ci sono tre parole che si pronunciano esattamente allo stesso modo, ma hanno significati completamente diversi. Ed è la parola "cite". In inglese, "cite" significa citare, fare riferimento a qualcosa, una citazione da un testo o da un’opera letteraria. Poi c’è "sight" , che riguarda l’aspetto visivo, la vista, il guardare. E infine "site" , che indica un luogo, un sito. Quindi, in un certo senso, ho pensato a tutto questo come a un triangolo metafisico, una specie di piramide formata da "cite", "sight" e "site". Se c’è un significato profondo, sto cercando di evocare una relazione tra questi punti cardinali; è come creare un ologramma, qualcosa che dia profondità e dimensione, dove possiamo dire che ciò che sto citando, da ciò che ho letto nelle istruzioni di cui siamo completamente circondati, in termini di didattica della storia e dell’archeologia, può poi fare appello al nostro senso della percezione visiva per giocare con questa citazione e interrogarla. E tutto ciò, naturalmente, non sarebbe davvero possibile senza il terreno stesso su cui stiamo camminando, che è così stratificato dalla storia dell’evento, che è Pompei. Pompei offre una lettura diversa a ogni generazione che vi si avvicina e, in un certo senso, dovremmo anche ricordarci che, prima o poi, qualcosa arriverà a superare l’archeologia, perché l’archeologia è relativamente moderna rispetto all’evento di Pompei. A Pompei, per quanto ne so, non c’erano archeologi. È la sua prima volta a Pompei, questa? No, ci sono stato molte volte. Posso dire di essere fortunato, ma probabilmente questa sarà l’ultima volta che verrò, perché ora siamo arrivati a una dichiarazione, a un'affermazione, e credo di essere più o meno soddisfatto di come essa si inserisce nel contesto di Pompei. Pompei è… è immensa; è come un’odissea, come un’epopea; è una sorta di capsula straordinaria, in un certo senso, e continuiamo a scoprirla, continua anche a evolversi ed è proprio questo che vale davvero la pena ricordare alle persone. Si evolve anche nei modi in cui le persone pensano a Pompei e si evolve grazie a ogni tipo di progresso tecnologico. Lei oggi ha qui una mostra molto importante. Qual è il suo sentimento? La sensazione che ho oggi, rispetto a ciò che sto facendo, è strettamente legata al concept del progetto. Non si tratta affatto di entrare in uno spazio espositivo neutro, come il classico "white cube", con il mio lavoro. Le persone conoscono bene quel contesto: è l’ambiente classico dell’arte modernista o neo-modernista, in cui si espone all'interno del "white cube", il cliché, lo spazio ideale per eccellenza, uno spazio che quasi non ha storia. La sua storia è una tela bianca, una sorta di tabula rasa, se vogliamo. Qui, invece, è completamente il contrario, in un certo senso, perché sei costantemente in dialogo non solo con l’edificio, ma anche con gli oggetti che esso contiene e con le ragioni per cui le persone vengono a vedere tutto questo. Quello che trovo interessante è il modo in cui il progetto applica un approccio — non lo definirei una disciplina — a un altro insieme di circostanze. Quindi, in un certo senso, sento di essere un artista e mi ritengo molto fortunato ad aver esposto in molti luoghi. Questo per me è stato un anno estremamente impegnativo. Ho appena concluso una mostra al Centre Pompidou di Metz, e sono appena tornato da una grande esposizione in Giappone, a Kyoto. Più recentemente, solo poche settimane fa, ho esposto al Museum of Contemporary Art di Sydney. Così è stato un anno molto impegnativo. Sono molto fortunato, perché qualcuno è interessato a vedere ciò che ho da dire. Da un luogo all’altro, poi a un altro ancora, e ancora a un altro. È quasi una specie di percorso globale. La prossima tappa sarà Lisbona, dove farò una grande mostra in un museo importante. Poi partirò per San Paolo, in Brasile, per un’altra esposizione. Quindi, in un certo senso, ogni progetto ha un suo nucleo speciale, un suo cuore. Oggi, il mio ruolo è incontrare persone meravigliose come te, per parlare forse un po’, anche se di solito non lo faccio così tanto come invece ho fatto questa mattina con te, proprio in questo modo, parlando del lavoro. Penso anche che ci siano dei vantaggi nel fatto che l’artista si faccia da parte rispetto all’opera, fornendo alle persone delle informazioni e poi lasciandole in qualche modo “allucinare” o sognare, cercando di interpretare delle immagini piuttosto astratte, tratte dal backstage qui, proprio dove questi alberi antichi vivono, o continuano a morire, o continuano a vivere nella loro morte. È una cosa legata molto al tempo e molto alla mortalità. Quindi, oggi in particolare, tutto questo ha un valore speciale per me. Qual è stata la circostanza più ardua da affrontare, preparando questa mostra? Cerchi, in un certo senso, di metterti nei panni dello spettatore. Cerchi di pensare: quanto posso avvicinarmi all’esperienza di cosa significherebbe, per me, incontrare queste opere per la prima volta, senza esserne l’autore? In questo senso, ogni spettatore completa in qualche modo l’opera, portando con sé la propria esperienza, che diventa parte importante dell’opera stessa. È davvero come un laboratorio: un processo di ricerca su ciò che io definirei le tecnologie della soggettività. È davvero questo il punto. Quali strumenti ho a disposizione per poter parlare con un’altra persona e rendere quella conversazione significativa, anche senza essere fisicamente nella stessa stanza? Il fatto è che l’opera media, in una certa misura, un’atmosfera, qualcosa che, probabilmente, è meglio resti indescrivibile. Suppongo che queste siano state, e continuino a essere, le sfide che attraversano tutte le opere che ho realizzato. Vuole dirci qualcosa sull’opera con le palme dorate che avete posto nel piccolo giardino interno al piano terreno? Sì, volentieri. È davvero una specie di momento di pausa e di gioia, in cui gli architetti devono aver deciso di inserire una sorta di capriccio; forse stavano osservando i cortili con giardini, molto popolari tra i più ricchi di Pompei. Qui c’era questa piccola architettura, una piccola enclave, uno spazio capriccioso dedicato alla decorazione o al piacere, o al suono dell’acqua corrente in questo grande caldo e in questa temperatura; un luogo che deve essere esistito qui per un tempo molto, molto lungo. Quindi, in un certo senso, è un luogo di riposo, dove non devi pensare agli oggetti esposti. Non devi leggere una didascalia per capire cosa stai guardando. Non è storicizzato. Fa parte dell’edificio, proprio come i colori delle pareti, la natura del pavimento o le tende nella stanza accanto. In un certo senso, è parte della struttura dell’edificio, che è la cornice, per così dire, di ciò che contiene. Quindi si gioca con la cornice, inserendo queste palme dorate un po’ strane, decorative e folli, realizzate a Monaco nei primi anni ’70. Queste, avrebbero sicuramente trovato posto nelle discoteche di Berlino, nelle discoteche di Monaco, quei posti alla moda, frequentati da gente cool, dove queste persone si ritrovavano. Molte persone a Pompei, se avessero vissuto in Germania negli anni '70, si sarebbero imbattute in qualcosa di simile. Quindi, in un certo senso, sono divertenti. In qualche maniera volevo giocare proprio su questo: sulla relazione tra giardino e artificio. Anche nei casi più naturali, c'è sempre qualcuno che decide di piantare qualcosa, qualcuno che decide di cambiare l'acqua. Qualcuno doveva pescare i pesciolini rossi. Qualcuno deve impedire ai gatti di entrare e mangiarli. Quindi, in un certo senso, fa davvero parte del museo, ma allo stesso tempo fa parte della vita fuori dal museo. È anche, in un certo modo, un ponte verso l’esterno, è l’opera più leggera, la più delicata. Qual è il ruolo dell’artista? È molto difficile, perché in un certo senso tutto evolve, tutto cambia, e in fondo gli artisti, da molto tempo, sono costretti a negoziare e a confrontarsi con chi detiene il potere nella situazione in cui un'opera d'arte esiste. Le vie per la diffusione delle opere sono importanti per gli artisti. Gli artisti trovano sempre modi nuovi e diversi per far sì che il loro lavoro venga visto, ascoltato o percepito. Non siamo in un momento particolarmente speciale. Semplicemente ci troviamo nel presente. Tecnologie emergenti che si sono affermate. Se guardiamo, per esempio, a cosa ha cambiato Internet nella produzione e nella fruizione dell’Arte, o a cosa ha fatto il telefono cellulare nella produzione e nel consumo delle immagini. Siamo in uno stato di enorme cambiamento di paradigma e di turbolenza per quanto riguarda il modo in cui le immagini — se le consideriamo in relazione all’Arte, come molte persone fanno, chiamandola Arte visiva — hanno subito una sorta di rivoluzione. Quindi, penso sia saggio cavalcare davvero l’onda di questa rivoluzione, trovando quei punti in cui si sente di poter diffondere amore e compassione. Questo, credo, sarebbe il mio intento e il mio ruolo, almeno come artista oggi: cercare di portare un po’ più di pace e compassione nel mondo. È semplice: è una grande affermazione da fare, ma qualcuno deve pur farla!

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