Anatomia del Premio Strega, ecco perché non è passato di moda

“Confrontandosi con i premi letterari e in particolare con lo Strega, il romanzo italiano negli ultimi vent’anni ha messo a punto una sorta di strategia espressiva che cerca di tenere insieme le esigenze di successo commerciale e le esigenze di prestigio”. A dirlo è Gianluigi Simonetti, docente di letteratura italiana dell’Università di Losanna che ha vivisezionato il premio letterario più prestigioso d’Italia in un saggio “Caccia allo Strega", edito da nottetempo. Simonetti descrive un cambio di paradigma che si è consolidato nel nuovo millennio e che ci racconta molto della letteratura contemporanea o meglio di “quello che ci aspettiamo dai romanzi”, come direbbe lui. Un’evoluzione che secondo il professore porta con sé aspetti positivi e aspetti negativi. Lo abbiamo intervistato in attesa di conoscere la dozzina di libri semifinalisti della LXXIX edizione, che verrà annunciata il 15 aprile. Da dove cominciare? Parliamo di un premio che ha quasi ottant’anni di storia alle spalle. Mi pare che una buona parte del romanzo italiano, che ha ambizioni letterarie oggi, non nasconda di aspirare alla visibilità, al successo, all’affermazione sociale e commerciale. Ecco questa è, secondo me, una forte novità, perché nel Novecento queste due istanze, cioè il successo commerciale e il successo dato dal prestigio, erano separate e inconciliabili. Se guardiamo ai libri vincitori degli ultimi anni notiamo che si è creato una sorta di corpus, una sorta di repertorio di narrativa, sul piano linguistico, stilistico, tematico e anche forse dei valori, sulla base di questo nuovo equilibrio o compromesso. Mi permetta una semplificazione giornalistica. Si può dire che lo Strega sia diventato un genere? Un genere no, perché sarebbe eccessivo. Io parlerei più di una nebulosa, composta da una serie di regole e principi che ha lo scopo di soddisfare entrambe quelle istanze di cui parlavo prima, quella commerciale e quella di prestigio. I generi di successo, sia in senso commerciale sia in senso di prestigio, cambiano abbastanza rapidamente. Quello che ha successo oggi non aveva successo dieci anni fa, e non avrà successo tra cinque anni. Quindi non è tanto un tema o un genere, perché i gusti cambiano. Quella che, invece, resta, è piuttosto questa serie di principi che possono includere diversi generi. Lo chiamo “nobile intrattenimento”, che è la chiave di lettura degli ultimi venticinque anni di Premio Strega. Ci spieghi meglio. Questa nebulosa, secondo me, forma un'area stilistica, un repertorio di forme che puntano ad accontentare il lettore sul piano dell'intrattenimento, e quindi obbediscono a un ideale di leggibilità, di facile decifrazione, di sincronizzazione con il presente, di rispondenza con i temi di cronaca. Un tratto caratteristico è anche quello che definirei un certo uso della prima persona. Questo quindi è l’”intrattenimento”. E dall'altra parte, invece, la parte “nobile”? Questi romanzi al tempo stesso rispondono a delle esigenze di artisticità, che, quindi, non è stata del tutto eclissata dal desiderio di intrattenere il lettore. Secondo lei, quali sono i costi e i benefici di questo nuovo equilibrio che si è creato? I romanzi da Premio Strega non sono più scritti per piacere solo alla critica, ma anche per avere una fortuna sociale e anche commerciale e questo li rende più accessibili e meno elitari. Parliamo di prodotti concepiti per ottenere riscontri positivi. Quello da Premio Strega è un romanzo molto “amichevole” nei confronti del lettore, un romanzo che va incontro ai gusti e anche alle possibilità di un numero abbastanza elevato di essi. Attenzione, non stiamo parlando di bestseller di consumo, che vendono milioni e milioni di copie, e si diffondono a livello globale con una fortuna transnazionale. Parliamo di romanzi che vendono centinaia di migliaia di copie e a volte possono arrivare a varie centinaia di migliaia, quindi comunque romanzi con una buona diffusione e che definirei abbastanza commestibili per dei lettori che cercano letterarietà e che si aspettano in una certa misura di trovare arte nel romanzo. E qui siamo ai benefici. I costi quali sono? Tutto questo produce una certa massificazione, un certo conformismo, e tende un po' a smussare gli angoli e ad attenuare l’originalità. Di solito sono romanzi un po' furbi, un po' scaltri, costruiti con una buona dose di ingegneria editoriale, per cui tendono ad assomigliarsi tra di loro e a non fare troppo male al lettore, proprio perché puntano piuttosto ad “accarezzarlo”. Quando Pasolini nel ‘68 disse “Mi ritiro dal Premio Strega in nome della cultura” stava intravedendo o profetizzando già parte di questo processo che lei descrive? Un po' c'entra e un po' non c'entra. C'entra perché lui intravedeva, con il solito grande tempismo, una trasformazione importante dello Strega che si stava verificando negli anni Sessanta. Lo Strega, istituito nel ‘47, nei primi due decenni di vita era stato un premio profondamente legato a una società letteraria ristretta, quindi, se vogliamo, molto autoreferenziale, destinato ai letterati e per questo abbastanza separato dal commercio e dall'industria. Lui invece si era accorto che lo Strega si stava avvicinando a quella che lui chiamava già all'epoca l'industria culturale “neocapitalista” e quindi notava una cosa vera, cioè che il premio cominciava ad avere un impatto sull'industria, sull'editoria di narrativa come forma di industria culturale. Quindi in questo senso c'entra. E in cosa non c’entra? Non c'entra fino in fondo perché in realtà le cose sono cambiate da allora, perché fino agli anni Novanta il Premio Strega è effettivamente diventato più vicino all'industria culturale, ma in nome di logiche editoriali, quindi distaccandosi dalle esigenze della società letteraria ristretta, fatta da scrittori, critici, intellettuali, soprattutto romani. Si è avvicinato proprio ai grandi marchi, alla grande editoria di narrativa. Oggi è, invece, un premio che si confronta direttamente col mercato e pertanto è meno legato a logiche endogene all'editoria di narrativa. E quando dico mercato intendo che lo Strega ha ormai un rapporto diretto con le classifiche di vendita. Secondo me è un passaggio ulteriore rispetto a quello intravisto e denunciato da Pasolini, un passaggio che Pasolini non poteva descrivere perché era di là da venire. È come se questo premio abbia trovato delle strategie di sopravvivenza nel corso delle varie epoche. Infatti, negli ultimi vent'anni i premi letterari, che sono un'istituzione teoricamente arcaica e che per questo avrebbero dovuto perdere importanza dal punto di vista commerciale, stanno acquisendo un maggior peso, anche commerciale, senza dipendere più dalle logiche editoriali pure e semplici. Trova che sia retorico dire che il Premio Strega sia lo specchio della società italiana? Direi che è piuttosto lo specchio della nostra idea di letteratura, di romanzo soprattutto, cioè specchio dei nostri gusti letterari. Questo invece sì, credo che lo Strega stia facendo uno sforzo enorme di sincronizzarsi a quella che crede essere la nostra idea di romanzo, quindi sta facendo una grande operazione, con costi e benefici, di adeguamento a quello che noi oggi - parlo di noi come società - ci siamo abituati a chiedere alla letteratura. Un'idea un po' addomesticata rispetto a quello che noi eravamo abituati a chiedere alla letteratura. Eravamo più esigenti nel Novecento, al romanzo chiedevamo di più, ci stiamo abituando a chiedere un po' di meno. Il Premio è stato accusato negli anni di non aver valorizzato le donne, anche se quando hanno vinto lo hanno fatto con libri dirompenti. E scelgo di citare due scrittrici non così conosciute dal grande pubblico come meriterebbero, come Lalla Romano con “Le parole tra noi leggere” e Maria Teresa Di Lascia con “Passaggio in ombra”. Oggi questa tendenza negativa sembra essersi ribaltata, tanto che Walter Siti l’anno scorso ha alluso a un presunto vantaggio femminile tout court a discapito dell’opera letteraria. Cosa ne pensa? È vero che poche donne hanno vinto. Il che è un po' strano se pensiamo che questo premio ha avuto storicamente una direzione femminile. Ricordiamo la fondatrice Maria Bellonci e poi Anna Maria Rimoaldi, il suo braccio destro che ne ha preso il suo posto fino al 2006. Le donne che hanno vinto però sono state poche, troppo poche. In questo lo Strega è stato uno specchio di una reale misoginia della società letteraria italiana, ma va anche detto, come notava lei, che, però, quando è successo hanno vinto grandi libri. Ai nomi che ha fatto lei aggiungerei evidentemente anche Elsa Morante - in quell’anno, il 1957, lo Strega premiò tempisticamente “L'isola di Arturo” per esempio - e Natalia Ginzburg. Poche donne vincitrici, ma grandissimi romanzi, il cui valore è stato riconosciuto in tempi in cui non era scontato. Veniamo al presente e alla questione di genere dei giorni nostri. Soprattutto nel decennio che ci lasciamo alle spalle è facilmente percepibile una grande sensibilità nei confronti delle scrittrici che riflette una sensibilità più generale dell'industria culturale e dell'editoria narrativa verso le donne. Da qualche anno a questa parte c'è una vera e propria caccia alla scrittrice. Un fenomeno che osserviamo anche in Francia, Regno Unito, Germania, Stati Uniti, quindi non solo italiano. In questo momento c'è una grande richiesta industriale di scrittrici e questo in qualche modo si ripercuote su alcuni premi in cui sicuramente questa logica ha avuto un peso. In sintesi, siamo passati da una fase in cui ce n'erano troppo poche, e ingiustamente troppo poche, a una fase in cui invece c'è una ricerca di scrittrici donne che ha vari scopi: alcuni culturali, altri più dettati da certe mode della società e in alcuni casi da scopi commerciali. Molte cose sono cambiate a livello organizzativo. Dal 2018 basta che un solo Amico della Domenica, così si chiamano i componenti della giuria, candidi un libro, prima era necessario ricevere due candidature. Cosa si aspetta da questa edizione e dai semifinalisti selezionati dal comitato direttivo? Risulta più facile indovinare la cinquina che la dozzina. Perché la prima infornata è a tratti gargantuesca e anche un po' aleatoria. Parliamo di più di 80 titoli. Essere candidato è diventato, per ragioni comprensibili, sia dal punto di vista commerciale sia dal punto di vista politico, molto facile. Questo ha aumentato molto il numero di candidati e secondo me ha anche reso più dispersiva l'offerta. Le cose cominciano a farsi più interessanti con la dozzina e con la cinquina. Detto questo, credo che ancora una volta, come negli ultimi due o tre anni, ci sarà un posto riservato a scritture di autofiction e di biofiction. Sicuramente troveranno anche uno spazio i nuovi romanzi di famiglia, in cui di solito c’è un narratore in prima persona che compie un'indagine sui propri familiari: è uno schema che in questo momento va molto. E poi credo che ci sarà un po' di romanzo neostorico, un altro filone recente. Quali sono i romanzi vincitori del Premio Strega del suo cuore? Dico “Ferito a morte” di Raffaele La Capria per una ragione: è uno dei rarissimi, forse l'unico caso, in cui lo Strega ha premiato un libro che aveva anche un lato sperimentale. Avvicinandoci al presente direi “Via Gemito” di Starnone , che vinse un po’ a sorpresa e ha segnato un prima e un dopo nella storia dello Strega per tutte le ragioni che abbiamo già detto. E nella lista inserisco anche “Resistere non serve a niente” del già citato Walter Siti e Emanuele Trevi, non con “Due vite”, il libro con cui ha vinto nel 2021, ma per quello con cui sfiorò la vittoria, “Qualcosa di scritto”. Paradossalmente ha vinto, forse, con uno dei suoi romanzi meno belli. È capitato più volte nella storia dello Strega.

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