“Vicina ma lontana”, la Serbia vista dagli occhi di un traduttore

Di Serbia si sta parlando moltissimo negli ultimi mesi, da quando, a seguito del crollo di una pensilina nella stazione di Novi Sad e della morte di 16 persone, le proteste contro la corruzione e contro il partito al potere da oltre un decennio, l’SNS, sono esplose da nord a sud. Il dissenso è culminato con una manifestazione oceanica il 15 marzo che ha portato in piazza, secondo fonti indipendenti, 300mila persone. La cronaca ci mette davanti a una mobilitazione di proporzioni storiche, a due passi da casa nostra, e ci interroga come europei sullo stallo del processo di integrazione di questo Paese, su cui incombono Russia, Cina e Stati del Golfo, mentre i media di opposizione serbi denunciano il silenzio dell’Ue e un sentimento di disamoramento che serpeggia tra le file di chi un tempo sperava di unirsi ai 27. Quanto conosciamo davvero questo Paese che dista meno di due ore di volo ma che continua a essere così enigmatico? Per capire qualcosa in più oggi partiamo dalla letteratura, con l’aiuto di Enrico Davanzo, traduttore dal serbo all’italiano e ricercatore nell’ambito delle culture e le letterature dello spazio ex jugoslavo. Proprio quest’anno ricorrono i 50 anni dalla morte del Nobel Ivo Andrić, il più importante scrittore balcanico, che meglio di tutti ha raccontato i ponti che uniscono e dividono l’Est e l’Ovest. IvoAndrić cresciuto nella Bosnia multietnica, nato da genitori croati, cattolico, ma identificatosi per buona parte della sua vita come serbo, è ancora oggi al centro di accesi dibattiti identitari. E partiamo proprio da Ivo Andrić, visto l'anniversario. Scrittore serbo, jugoslavo? Possiamo definirlo semplicemente scrittore “europeo” per uscire fuori dall’impasse? Mah, Andrić per tutta la sua vita si è identificato come “jugoslavo” . Le diatribe sulla sua precisa appartenenza etnica sono scoppiate con le guerre degli anni Novanta, quando i diversi nazionalismi hanno cominciato a contendersi la sua memoria perché è l’unico degli scrittori di qui ad aver vinto il premio Nobel… Risulta però innegabile il carattere “europeo” del suo percorso di vita - studiò a Graz e Cracovia, fu attivo come diplomatico in Spagna, Italia e Germania, dove fu testimone dell’ascesa di fascismo e nazismo - , che si riflette immancabilmente nella sua scrittura: ha saputo presentare la vita quotidiana di villaggi e città della natìa Bosnia - ma anche di Belgrado, dove trascorse gran parte della sua vita adulta - come un palcoscenico per i drammi e le verità universali della Storia. E così ha fatto uscire tanti lettori e critici europei dai pregiudizi faciloni sui Balcani “selvaggi e lontani”. Uno scrittore che ebbe anche molto a che fare con l’Italia. Sì, nei primi anni Venti fu mandato a Roma come membro del corpo diplomatico presso il Vaticano, e nel 1923 lavorò presso il consolato jugoslavo di Trieste . Assistette agli scontri che accompagnarono la nascita del regime di Mussolini, sui quali scrisse degli articoli ; probabilmente questi ricordi influenzarono la descrizione dei tumulti popolari nel grande romanzo “La cronaca di Travnik”, ambientato in Bosnia durante l’epoca napoleonica. Ma c’è tanta Italia anche nel resto della sua produzione. Nel suo primo racconto, “Il viaggio di Alija Djerzelez”, una nobildonna veneziana seduce e spinge all’umiliazione il grande eroe dell’epica popolare bosniaca, mentre nel suo romanzo più noto, “Il ponte sulla Drina”, l’annessione della Bosnia-Erzegovina all’impero asburgico è segnata anche dall’arrivo di un suonatore di fisarmonica di origine friulana… Per non parlare dei racconti che gli furono ispirati dal periodo triestino, che diversi anni fa Mondadori aveva pubblicato in una raccolta apposita. Vedendo la letteratura degli ultimi decenni, vede una prevalenza maggiore dell’Est o dell’Ovest e come il mancato processo di integrazione europea, in stallo, ha influito sugli aspetti culturali? “Est” e “Ovest” sono concetti aleatori, certe volte limitanti, che non sempre rispecchiano la realtà in tutta la sua complessità. Dal punto di vista culturale, sono entrambi presenti nella storia serba: basti pensare ai poeti Marko Ristic o Koca Popovic che parteciparono alla grande esperienza surrealista parigina degli anni Trenta, o all’attività come diplomatici in Italia dello scrittore Milos Crnjanski, o del già citato Andric, e potremmo andare avanti fino al Medioevo. Dal punto di vista socio-politico, che si può dire? Ci sono tanti pregiudizi nei quali è meglio non cadere. Comunque, la Serbia attualmente si trova in una posizione molteplice: è Paese candidato all’UE, ma al contempo ha forti rapporti economici con la Cina e con la Russia, alla quale è unita da un profondo legame culturale, date le comuni radici ortodosse. Tutto questo ha ovviamente le sue conseguenze sulla letteratura. Si trova negli Usa per il convegno Midwest Slavic Conference presso la Ohio State University, e si sta occupando di un progetto di ricerca legato alla narrativa di massa, sviluppatasi nella Jugoslavia socialista sul modello dei dime novels americani. Cosa ci racconta questo fenomeno della dialettica Est-Ovest nella cultura serba e jugoslava? Nel 1948 ancora tutti i Paesi come Slovenia, Croazia, Serbia, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Kosovo, Macedonia erano compresi in quest'unico Stato, una federazione presieduta dal dittatore comunista Josip Broz, detto Tito, che temendo di poter perdere la propria influenza e la propria libertà di manovra sotto Stalin, entrò in aperto contrasto con l’ortodossia e nel 1948 fu espulso dal Cominform, l'organizzazione che riuniva tutti i Paesi comunisti sotto l'agenda sovietica. Questo portò all’apertura di rapporti, scambi diplomatici, commerciali e anche culturali con i Paesi del blocco occidentale, in particolare con gli Stati Uniti. In questo modo nel corso degli anni si creò anche una sorta di cultura ibrida nel Paese, che, pur restando comunista nel suo aspetto istituzionale, allo stesso tempo tollerava un certo grado di libertà economica e soprattutto accettava i prodotti culturali dell'Occidente, legati in particolar modo alla musica, al cinema e ai fumetti. Che conseguenze ha avuto tutto questo a livello culturale? Il saggio "Con ventiquattromila baci" di Francesca Rolandi lo spiega bene, analizzando le somiglianze tra la cultura di massa italiana degli anni Sessanta e quella jugoslava. Ce n’erano molte. Inoltre, i prodotti che arrivavano dagli Stati Uniti passavano principalmente per Trieste. Dopo il calo delle tensioni legate al confine orientale, iniziano anche rapporti di scambio più intensi, quindi gli jugoslavi venivano a Trieste per comprare i jeans, per comprare i vinili e viceversa gli italiani che abitavano nei pressi del confine andavano in Jugoslavia per acquistare sigarette, carne, benzina a basso prezzo. Questa è una cosa che è continuata per tanti anni e ha rappresentato la fortuna di Trieste, come città-ponte. Questo, se posso anche espandermi nel discorso autobiografico, è quello che ha motivato l'interesse per la cultura jugoslava e che poi mi ha spinto a intraprendere il percorso di traduttore. Ci spieghi meglio. La famiglia di mia madre è di Trieste. Lei e mio zio sono nati all'inizio degli anni Sessanta, quindi hanno visto questo processo con i propri occhi e ricordano ancora i ragazzi jugoslavi che venivano a fare acquisti sul Ponte Rosso. Per questo io ho sempre conservato questa immagine della Jugoslavia e degli Stati che le si sono succeduti come un qualcosa di lontano ma anche vicino: strano, esotico eppure allo stesso tempo familiare. Questa cultura comune di cui lei parla è, non a caso, l’aspetto che molti intellettuali che sono cresciuti in Jugoslavia rimpiangono del mondo di ieri. Questi ricordi della cultura ibrida in qualche modo costituiscono ancora una sorta di memoria collettiva che unisce i popoli dell'ex Jugoslavia, popoli che, pur essendo stati spinti alla guerra dagli opposti nazionalismi negli anni Novanta, ancora conservano un’immagine positiva dei “bei tempi”, dell'epoca d'oro, che è rappresentata appunto da tutto questo patrimonio di musiche, film, anche oggetti di vita quotidiana che sono stati mitizzati. E da qui nasce anche il cosiddetto atteggiamento noto come “jugonostalgia”. Che ruolo ha avuto la Serbia all’interno di questa federazione culturale, oltre che politica? In poche parole: serbi, croati, bosniaci e montenegrini parlano nei fatti una lingua policentrica , le cui varianti nazionali sono mutualmente comprensibili: un serbo capisce un croato, che capisce un bosniaco, ecc. In base a questa idea tra Otto e Novecento si è proposto di riunire tutti questi popoli in un solo Stato , seguendo però modelli differenti. I serbi erano vicini all’esempio centralistico-unitario dell’Italia , altri invece, essendo legati a differenti esperienze religiose, culturali e statali , proponevano altri modelli… Da questo poi sono nati i vari scontri che hanno caratterizzato la storia recente della regione. Sotto il comunismo ci fu la nascita di questa cultura ibrida e di questo modello che pur restando repressivo, apparentemente forniva ai suoi cittadini lo stesso benessere di cui godevano gli occidentali capitalisti. Questa cultura fu un collante che garantì la coesione a quei tempi e che è sopravvissuto, in un certo senso, alla dissoluzione dell’ex Jugoslavia. E per questo il sistema durò a lungo, nonostante le contraddizioni intrinseche. Apertura culturale, ma allo stesso tempo repressione del dissenso. L'avvicinamento all'Occidente, con la nascita di questa cultura consumista che fece da sfondo, non ha concretamente cambiato un fatto inconfutabile: la Jugoslavia comunque era una dittatura con un presidente a vita . Questa complessità è esplorata molto bene nel libro che ho tradotto per Bottega Errante Edizioni, uscito a gennaio. “Il Trio di Belgrado” di Goran Marković tratta di un periodo cruciale, della fase in cui Tito dopo essersi staccato dall'Unione Sovietica si avvicina all'Occidente nei primi anni Cinquanta e sottopone tutti i suoi sostenitori, collaboratori e amici a una scelta: “o con noi o con Stalin”. Chi era con Stalin, o era anche solo sospettato di esserlo, veniva liquidato o mandato in un campo di rieducazione, un lager su un'isola nel Mare Adriatico, nota come Goli Otok , dove molti furono spediti per essere “rieducati” alla fedeltà a Tito attraverso lavori forzati privi di qualsiasi utilità, in un modello che vedeva gli stessi prigionieri torturare i loro compagni di prigionia, per prevenire le resistenze interne. Il libro narra appunto di come Goli Otok fu concepito, portato a compimento e allo stesso tempo descrive anche le prime avvisaglie di questa cultura consumista che si faceva strada. Verso la fine del libro si parla appunto anche dei primi jazz club aperti a Belgrado, che nei decenni successivi avrebbe accolto anche altri fenomeni culturali interessanti e cosmopoliti. C’è questa ambivalenza che ha contraddistinto la seconda metà del Novecento jugoslavo. Si è specializzato negli autori dissidenti. Come è arrivato a questo? Mah, non mi sono “specializzato”, più che altro la vita mi ha messo in contatto con le opere di autori serbi, vissuti in periodi diversi, che più volte si sono opposti a chi c’era allora al comando. Il primo, Radoje Domanović , che ho tradotto per LINEA Edizioni , visse tra fine Ottocento e inizio Novecento, quando in Serbia vigeva la dittatura monarchica di re Alessandro I Obrenović. Domanović morì molto giovane, era uno dei simboli della “bohéme” di Belgrado e fu spesso perseguitato per via delle sue critiche pungenti. Non si limitava a criticare lo stato degradato delle libertà civili, ma si scagliava pure contro il nazionalismo esasperato. Il secondo è invece Borislav Pekic , di cui ho tradotto sempre per Bottega Errante la raccolta di racconti gotici “La Nuova Gerusalemme” e ci avviciniamo più al presente. A solI 18 anni, era stato condannato al carcere per aver organizzato con altri coetanei un gruppo clandestino di opposizione al regime di Tito: fu graziato ma restò malvisto dalle autorità, tanto che alla fine emigrò a Londra dove rimase per circa venti anni, pur avendo vinto anche degli importanti premi letterari. Si rifece apertamente ai modelli di Orwell o Solženicyn per le condanne espresse al totalitarismo e alle sue mistificazioni della Storia. La sensibilità di Goran Markovic può essere avvicinata a questi esempi. Ha esordito come regista negli anni Settanta con film che ritraggono la società serba e jugoslava da un punto di vista ironico, surreale, grottesco. In Francia è conosciuto e apprezzato - ha ricevuto la Legione d’Onore - mentre in Italia la sua opera cinematografica dev’essere ancora valorizzata come merita. Durante gli anni Novanta si è esposto pubblicamente sulla guerra e il governo di allora, e negli ultimi mesi è intervenuto in merito alle proteste che stanno attraversando il Paese. La dissidenza come chiave di lettura della letteratura serba contemporanea? Non credo che la dissidenza vada intesa come una distinzione netta: molti scrittori sono vicini a questo tipo di esperienze, altri invece non sono apertamente schierati, ma non per questo sono meno validi. Più che altro è interessante vedere come tante volte la letteratura serba ha espresso il dissenso nei confronti del potere sovrapponendo realtà e fantasia, procedimenti tipici della narrazione documentaria e racconti di pura fiction. Questo è un tratto che ho notato, seppur in modalità diverse, nella maggior parte degli autori che ho tradotto. La domanda che facciamo a tutti i traduttori protagonisti di questa serie di approfondimenti su Sky Insider è quella di scegliere una parola significativa. Qual è la sua?. Sloboda, libertà, perché ricorre in modo diverso in tutte le lingue slave. Libertà è un tema essenziale per tutti questi scrittori di cui ho parlato e che ho avuto la fortuna, il privilegio e l'onore di tradurre. C’era fame di libertà nei periodi in cui hanno scritto, perché mancava. Forse la libertà manca sempre e forse è così un po' ovunque, però è un qualcosa che ispira e muove la società e quindi la letteratura.

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Ludovica Passeri