Marina Vujčić: “La Jugoslavia? Un'illusione, ma fu una vera comunità culturale”

Nel 2015 “Il vicino”, in croato “Susjed”, si aggiudicò il premio nazionale V.B.Z. per la migliore opera inedita. L’autrice Marina Vujčić, drammaturga nata a Trogir ma trapiantata per molti anni a Zagabria, sottopose il suo manoscritto anonimo al concorso. In un decennio ha venduto migliaia di copie ed è uno dei romanzi più letti e amati dai lettori croati. “Nel 2019 ne è stato tratto un adattamento teatrale e ora potrebbe diventare un film”, racconta a Sky TG24 Insider Vujčić. Solo poche settimane fa “Il vicino” è arrivato in Italia grazie a Bottega errante e alla traduzione di Estera Miočić. Katarina Bauković, la protagonista del thriller psicologico, è una donna come tante: lavora in un centro per l’impiego, è cresciuta in una famiglia disfunzionale e ha alle spalle una relazione tossica. Vive in un appartamento in affitto che fa fatica a pagare, circondata da un panorama affettivo e relazionale desolante. La sua vita ha una svolta improvvisa quando nota il vicino del secondo piano: la mattina escono alla stessa ora e si scambiano un saluto frettoloso per le scale. Dietro quegli incontri quotidiani Katarina, che sviluppa un’ossessione nei confronti dell’uomo, intravede la potenzialità di una storia d’amore senza tuttavia che Ozren, questo il nome che gli ha affibbiato, ne sia a conoscenza. Pagina dopo pagina, la tensione cresce insieme alle paranoie e alle manie della protagonista, una donna sola e insicura, incapace di agire. Con Marina Vujčić abbiamo analizzato le ragioni di questo successo letterario e parlato del destino delle letterature nazionali dei Balcani occidentali a più di trent'anni dalla dissoluzione della Jugoslavia. In che genere sente di muoversi? Una volta per scherzo l’ho definito "un thriller sulle scale di un condominio". All'inizio della redazione il mio intento era quello di mettere in piedi una narrazione umoristica, poi ad un certo punto il romanzo ha avuto un’evoluzione inaspettata e ha cominciato a prendere una piega “spaventosa” e si è trasformato in un thriller emotivo e psicologico. Non sai mai come finisca quando cominci a scrivere un libro. Il thriller è un genere molto popolare, il genere che traina l'editoria mondiale, possiamo dire, ma è difficile affermarsi se la lingua in cui si scrive non è l’inglese, il francese, lo spagnolo. Si aspettava che sarebbe stato tradotto anche in italiano? Ho scritto una storia che potrebbe accadere in un palazzo in Francia, in Italia o in America, in qualsiasi quartiere che abbia dei palazzi residenziali. Penso che anche per questo abbia avuto un così grande successo in Croazia e dopo così tanti anni sia stato tradotto. Non l'ho scritto con l’obiettivo di pubblicare un bestseller, ma così è stato ed è un libro ancora “vivo” in Croazia, anche se sono passati nove anni dalla prima pubblicazione. L'intero dramma accade nella mente di Katarina e credo che questo mio romanzo possa funzionare in qualsiasi parte del mondo perché non ha delle caratteristiche legate a un luogo, non si identifica con un posto, con uno spazio preciso e la dimensione del tempo è inafferrabile. Non ci sono tanti riferimenti temporali in effetti, solo alcuni accenni ad elettrodomestici e cellulari, ma cosa voleva raccontare del nostro presente? Nel mio primo romanzo "Tuđi život" ho affrontato il tema della solitudine dal punto di vista del rapporto tra realtà e realtà virtuale. Ne “Il vicino” racconto lo stesso disagio, dimostrando che le stesse illusioni e le stesse distorsioni possano verificarsi offline. Caterina è un caso limite, ma conosco molte persone che immaginano di essere “vicine” a qualcuno o a qualcosa senza che questa vicinanza sia effettiva. Dunque, è vero che il tempo del romanzo è indefinito e questa è stata una mia intenzione. Però è un ritratto della nostra contemporaneità. Cosa ha voluto rappresentare questa donna che è anche la narratrice? La protagonista di questo romanzo è una donna isolata. Non ha niente da fare e nel silenzio della sua casa sente l’orologio biologico che ticchetta. Vorrebbe avere dei figli, vorrebbe crearsi una famiglia ed è dentro alla sua disperazione che costruisce una illusione a partire dal semplice saluto di un vicino di casa sulle scale del condominio. Molti mi hanno chiesto se questo sia un romanzo d'amore. In realtà questo è un romanzo sulla mancanza d'amore. Altri si chiedono anche se la nostra protagonista, Katerina, sia una psicotica, se abbia un disturbo psicologico. In realtà, capiamo pagina dopo pagina che la sua non è una patologia psichica, è soltanto l'assoluta solitudine nella quale vive e in cui ha costruito un'illusione. È la rappresentante classica delle persone estremamente sole che fanno parte della nostra società. Questo romanzo si presenta come un lungo monologo interiore e traspare chiaramente il suo background di drammaturga. Non stupisce che ci sia stata una trasposizione teatrale. Il romanzo è diventato un monodramma. La richiesta più faticosa che mi è arrivata dal regista forse è stata quella di scegliere quali parti del romanzo mettere in scena e quali invece no. Il monologo è stato realizzato senza l'uso di alcun oggetto, per cui l'attrice mimava ad esempio la cucina, mimava il fatto di cucinare i manicaretti per l’uomo di cui si era innamorata. Il contesto, quindi il palazzo, l’appartamento e l’uomo amato, dovevano rimanere solo all'interno dei suoi pensieri e della sua mente. Katarina sul palco era sola con le sue emozioni. Del resto, la soggettività della donna è centrale, perché l'elemento maschile è residuale, marginale, laterale. C'è un messaggio in questo senso: ha voluto riportare la donna al centro del thriller? Come autrice è stata la parte più complessa e sfidante: non compare mai la prospettiva di Ozren, non sappiamo come si senta, cosa pensi, cosa succeda dietro la porta di casa sua. In effetti, non è importante, come non lo è nessun uomo che compare nel romanzo, perché in fin dei conti tutto si basa su come noi viviamo le situazioni che ci accadono. Non so se sono riuscita a farlo, ma per me doveva essere una sorta di messaggio alle donne su come non ci si debba comportare. La cosa più sbagliata è concentrare tutte le proprie energie su un uomo e affidare la propria felicità a un uomo dal quale facciamo dipendere il nostro benessere o malessere. Le piace la definizione letteratura post-jugoslava? Purtroppo tra le repubbliche dell'ex Jugoslavia non ci sono frequenti scambi culturali e la scena letteraria di ciascun Paese è molto chiusa. Non esiste più, purtroppo, quell'apertura letteraria e quel territorio vasto che c’era al tempo della Jugoslavia, quando ad esempio ciascuno poteva leggere libri scritti da croati, serbi e bosniaci, visto che non c’è necessità della traduzione . I miei libri per arrivare in Serbia ora devono essere ripubblicati. Prima della disgregazione i libri circolavano su un territorio molto vasto, oggi questo è impossibile perché le ex repubbliche sono diventate “Paesi stranieri” e conseguentemente i libri devono essere "importati". E tutto questo come si traduce nella pratica? Si pensi che in Croazia si possono leggere solo una manciata di scrittori serbi contemporanei, come Dragan Velikić, Milena Marković o Srdjan Valjarević, i cui libri sono importati. La letteratura ci divide, invece che unirci. Soprattutto tra Serbia e Croazia c’è una grande distanza in questo momento che si traduce proprio nell’assenza di alcuni autori nelle librerie. Tra la Bosnia, un Paese in cui la rievocazione delle guerra e dei drammi degli anni Novanta è ancora molto forte, e la Croazia, in cui questa tendenza si sta affievolendo, le cose vanno meglio grazie alla casa editrice Bajbuk: è l'unico editore che sta lavorando attivamente alla creazione e al supporto dei contatti letterari tra Croazia e Bosnia perché ha due sedi, una bosniaca e una zagabrese, e avendo due sedi può vendere gli stessi libri in uno Stato e nell'altro. Grazie a questo editore abbiamo potuto conoscere degli autori come Darko Cvjetić, Almin Kaplan, Namik Kabili, e così via. Per il resto, i nostri rapporti con la Serbia sono molto limitati. Qual è il risultato di questa politica sulla sua letteratura? Tra i miei libri due sono usciti in Serbia, uno è l'ultimo pubblicato, "Sigurna kuća" o "La Casa sicura", e l'altro è “50 sigarette per Elena”, che sono ancora inediti in italiano. Ma il punto è: perché sono usciti in Serbia? Perché io ho un editore serbo e questa è l'unica possibilità per me che le mie opere vengano lette in Serbia. Si parla molto di "Jugonostalgia", come di Ostalgie per la Germania Est. Cosa ne pensa di questo concetto e perché secondo lei le generazioni di nati negli anni Ottanta e Novanta che hanno conosciuto appena la Jugoslavia o che sono nati a dissoluzione già avvenuta sono considerate portatrici di questo sentimento di rimpianto e idealizzazione per i tempi andati? Io sono nata nel 1966 e sono cresciuta in Jugoslavia. Quando ero studentessa e mi sono trasferita a Zagabria dalla Dalmazia per l'università, esisteva un unico grande spazio senza frontiere, una comunità culturale. La cultura era una priorità. Zagabria era piena di attori, scrittori, musicisti da tutta la Jugoslavia. Era un continuo di incontri, presentazioni, dibattiti. I libri avevano una tiratura media di 30-40mila copie. Numeri che ora ci sembrano impossibili. Perché al tempo si produceva cultura per una popolazioni di 20 milioni di persone. E poi cos’è successo? Dopo gli anni Ottanta e la morte di Tito la politica ha continuato a non essere un tema importante. Dovete pensare che noi non sapevamo chi fosse il presidente della Jugoslavia. Non si parlava di politica e siamo tutti d’accordo che vivere in un modo del genere fosse meglio di vivere in quello attuale, quindi se parliamo di Jugonostalgia ci riferiamo proprio a questo. Non è la nostalgia verso il nome Jugoslavia o verso l’entità politica, ma nostalgia di un tempo in cui tutto era ampio e senza barriere. Eppure quell’universo si è disgregato in modo violento con delle terribili guerre. Certo, perché lo slogan “Fratellanza e unità” che ci teneva insieme era chiaramente un'illusione, ma per tanti anni non ci siamo interrogati sulle nostre origini, sulle nostre nazionalità, non ci importava da dove provenisse la nostra famiglia. Con la guerra hanno fatto irruzione queste differenze che per decenni abbiamo ignorato e tutto d'un tratto abbiamo capito che quelle differenze fossero più importanti di quello che avessimo immaginato, così importanti che siamo arrivati a ucciderci tra di noi, tra “fratelli”.

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