Terézia Mora: "La mia generazione? Donne sopraffatte dalla violenza"

“Ma la Ddr non è scomparsa da un pezzo?” “Non finché esisteranno persone che sono cresciute lì, dissi rispondendo alla sua domanda”. Così Muna, ricercatrice "mancata", nata e cresciuta nella Repubblica democratica tedesca, risponde a un altezzoso professore con una lucidità che non sa neanche lei di avere. “La metà della vita”, l’ultimo libro di Terézia Mora, già vincitrice del Buchpreis del 2013 con “Das Ungeheuer”, è un romanzo sui muri che cadono e sulla Storia che si incarna nella vita vissuta. Il crollo più fragoroso è quello che scuote Berlino e il mondo nel 1989, uno spartiacque esistenziale che segna un prima e un dopo nei rapporti umani e affettivi, ma è solo uno degli steccati che si sgretolano, alcuni cadono senza fare rumore, mentre scorre la vita della protagonista dai 17 ai 42 anni, dall’ingresso nell’età adulta alla sua “metà della vita”. Incontriamo all’inizio del libro una Muna adolescente che diventa donna pagina dopo pagina inseguendo un uomo irrisolto che vuole lasciarsi a tutti i costi la Ddr alle spalle: Magnus è apparentemente concentrato sul presente, in realtà solo su se stesso. La relazione tra Muna e Magnus con gli occhi di oggi la definiremmo senza esitazioni “tossica”. Gli occhi di Muna, ragazza degli anni Ottanta-Novanta, sono però incapaci di distinguere l’amore dalla violenza, la libertà dal disprezzo, nonostante sia circondata da femminismo. Dopo la grande mobilitazione degli anni Settanta, le piazze si svuotano e il movimento entra nei luoghi che contano e si fa strada gradualmente nelle università d’oltralpe. Muna studentessa, poi dottoranda, e per finire ricercatrice "imperfetta" in letteratura femminile. si muove tra un ateneo all’altro, da Berlino a Zurigo in questa nuova temperie scientifica e culturale, senza mai abbracciare nelle sue scelte e nei suoi pensieri la contemporaneità. Il Nuovo Mondo è solo un miraggio. Di questa tragedia femminile, edita in Italia da Feltrinelli per la collana Gamma, che non annoia neppure nei momenti in cui la protagonista è più avviluppata su se stessa e il ritmo è scandito dalle sue deadline di consegna, abbiamo parlato con Mora a Milano in occasione di BookCity Partiamo dall'identità, lei è una scrittrice nata in Ungheria e cresciuta in Ungheria come cittadina della minoranza tedesca per poi trasferirsi in Germania. Che rapporto ha con questa doppia identità e come si riflette sulla sua produzione? Nella genesi di questo libro mi sono chiesta se la protagonista dovesse avere un passato simile al mio, essere ungherese o invece tedesca. Alla fine ho scelto come protagonista una ragazza tedesca, e nella scrittura, nella fase di stesura, non ha creato alcun problema, quindi questo tema dell'identità non è davvero emerso, anche se indubbiamente riguarderà il prossimo libro a cui sto lavorando. Qual è il suo rapporto con la lingua tedesca? Una cosa importante da dire è che io fino al mio diciannovesimo anno di vita ho vissuto in Ungheria, e quindi anche per via dell’impostazione ricevuta a scuola, del mio primo approccio alla scrittura, alla letteratura, della vita sociale che ho avuto negli anni più importanti, di base mi sarei aspettata di scrivere in ungherese. Sarebbe stata la scelta più naturale, ma solo più tardi mi sono resa conto - a dire il vero l’ho capito quando ho iniziato a scrivere - che in realtà io sono una scrittrice solamente in tedesco, mentre in ungherese non lo potrei mai essere. Ed è una delle cose che non riesco a spiegare più di tanto e su cui ancora mi interrogo. A proposito di letteratura tedesca, quest’anno in Italia sono arrivati, oltre al suo romanzo, "Kairos" di Erpenbeck che ha vinto l'International Booker Prize, ed “Eravamo come fratelli” di Daniel Schulz… Tutti libri che raccontano attraverso le esistenze individuali quel grande momento di transizione dalla Germania divisa a quella riunificata. Trent’anni dopo c’è ancora bisogno di elaborare quel periodo? È innegabile che l'esperienza di una certa parte dell'Est del nostro continente debba ancora essere digerita. Personalmente ho dovuto fare un grande lavoro per processare non tanto la fine del socialismo in Ungheria e la Caduta del Muro, ma il fatto di essere donna. Lei pensi che ho scritto quattro libri in totale e hanno tutti a che vedere con il rapporto donna-uomo. Nei primi tre i protagonisti erano tutti uomini, tanto che a un certo punto mi sono quasi sentita una sorta di traditrice. Mi sono detta come faccio a non aver ancora scritto un libro che abbia come protagonista una figura femminile? Si è data una risposta? Perché mi risultava troppo difficile: ogni volta che immaginavo di scrivere un libro sull'essere donna, mi venivano in mente storie legate a un sentimento di vergogna o a un sentimento di dolore. Questo non vuol dire ovviamente che queste siano emozioni che non possa provare un uomo. Anche nei miei romanzi con protagonisti maschili sono sempre partita da un’ingiustizia, da una situazione di dolore, di insofferenza, ma quando ho scelto una protagonista femminile è stato diverso. Sono riuscita gradualmente a scrivere un romanzo femminile e parallelamente a superare i traumi dell’essere donna. Altrimenti non sarei neanche diventata madre o non sarei stata in grado di crescere una figlia femmina. È un momento d’oro per la letteratura femminile? Probabilmente negli ultimi anni c’è stata una tematizzazione minore, ma ora le questioni femministe in letteratura stanno di nuovo tornando in auge. Le donne stanno ritrovando voce, con una maggiore qualità e intensità. Sono felice che siamo tornati a parlarne in un clima diverso e leggiamo queste storie con un punto di vista più femminista e anti-patriarcale. Però non dimentichiamoci che a volte è anche questione di moda. Questo è un romanzo di formazione, perché Muna viene fotografata all’inizio del libro nell’istantanea del suo entrare nel mondo dei grandi, sullo sfondo della caduta del Muro di Berlino e della riunificazione tedesca. Proprio nel 1990 lei diciannovenne arrivò in Germania dall’Ungheria in cui era appena caduta la Repubblica popolare. Che dialogo c'è fra Muna e la piccola Terézia? Quando ho iniziato a scrivere il libro non ho pensato a un dialogo tra me e la protagonista. Lei mi sta facendo riflettere sul parallelismo: è vero che anche Muna è passata dalla Ddr alla Repubblica Federale, sebbene senza cambiare cittadinanza e luogo di residenza, ma comunque ha vissuto una transizione. Un momento di passaggio anagrafico che coincide con una cesura storica, però non volevo scrivere un libro di Storia ma raccontare la Storia dal punto di vista del protagonista. Si sono tutti concentrati sul muro che cade, ma quello che è al centro del libro è l’evoluzione del femminismo. Si spieghi meglio. Gli anni ‘90 che ho attraversato nel libro sono stati anche anni in cui la ricerca letteraria, lo studio della letteratura dal punto di vista delle donne non era minimamente vicino al punto che abbiamo oggi. Ho raccontato l’evoluzione del femminismo degli ultimi 30 anni. Pagina dopo pagina, si mette a fuoco anche il tema centrale che è quello dello sperimentare forme di violenza spesso difficili da riconoscere. La generazione di donne della mia età era in qualche modo rassegnata, il che però non significa che le ingiustizie patite fossero considerate giuste. Il libro racconta questa sofferenza che rimane sigillata e che non si riesce a esprimere. Probabilmente quello che pensavamo noi allora è che ci fosse una responsabilità da parte nostra e che fossimo sempre abbastanza adulte, a prescindere dall'età che avevamo, per assumerci la responsabilità delle violenze subite. Il fatto che certe violenze si consumassero senza che nessuno ci aveva puntato la pistola alla tempia ci faceva sentire complici e consenzienti. Ho covato per anni il risentimento per quello che abbiamo subito noi ragazze del secolo scorso. All’inizio del racconto Muna ha la stessa età di sua figlia. Pensa che sua figlia e le ragazze della generazione di cui fa parte siano davvero più attrezzate culturalmente a capire la violenza maschile, a difendersi e reagire? La speranza è quella che “La metà della vita” possa diventare in qualche modo un “romanzo storico”, nel senso pratico, cioè che la gente leggendolo prenda coscienza di quello che è stato non un secolo fa, ma solo qualche decennio fa. La mia speranza è che ad esempio le persone come mia figlia e le sue coetanee leggendo questo libro smettano, o meglio neanche inizino, a commettere la catena di errori che finisce per soffocare Muna. Ed è questa la motivazione che mi ha spinto a scrivere questo libro, ho provato, partendo dal fastidio che era chiuso dentro di me, a denunciare questo sistema di sfruttamento sistematico che le vittime non avevano la forza di spezzare, riconoscendo e denunciando la violenza. Posso scommettere che mia figlia non commetterà gli stessi errori. Stiamo leggendo questo libro nei giorni successivi al collasso del governo Scholz. Che idea si è fatta della “crisi tedesca”? È vero che stiamo vivendo come Paese una crisi molto profonda. Penso che le ultime tornate elettorali in Germania ci abbiano dimostrato quanto siano ancora profonde, tutt'altro che rimarginate, le ferite e le cicatrici dell'esperienza della Ddr e della cosiddetta riunificazione della Germania. A Est sono cresciute estrema destra o estrema sinistra, perché le persone che sono piene di ira o di disperazione si sentono più rappresentate dagli estremismi. La cosiddetta borghesia centrista, con posizioni meno estreme, è a Ovest. Le prossime elezioni saranno un vero banco di prova: non possiamo sapere se la situazione precipiterà come qualcuno si aspetta o se invece non sarà così catastrofica. Potrebbe svilupparsi una campagna elettorale costruttiva? Ci incartiamo sempre sui soliti temi. Di fronte alle grandi questioni rappresentate dai rifugiati o dalle guerre, si finisce sempre con un: “Ma com'è possibile che dobbiamo ancora occuparci dei rifugiati? Perché ci sono ancora le guerre?”. Il dibattito non va oltre. A mio avviso molte persone, tra l'altro non solo nel mio Paese, ma anche qui nel vostro e in generale in Europa, negli ultimi anni hanno dovuto fare i conti con tanti pesi che gravano su di loro. Vorrei chiudere con una frase in stile femminista. Anche recentemente quando abbiamo dovuto attraversare la stagione complicata della pandemia, ancora una volta quelli che si sono dovuti “rimboccare le maniche” sicuramente non sono stati gli uomini bianchi. Che futuro vede per il suo Paese di origine l’Ungheria? Non perdo le speranze, anche perché ho una figlia. Penso che l’era Orban finirà a un certo punto, ma ho trascorso recentemente un mese in Ungheria e forse ho capito una cosa che prima non mi era chiara. Non penso che gli ungheresi abbiano particolari opinioni politiche, come le intendiamo noi, né una visione del mondo se vogliamo chiamarla così. A molti va bene Orban perché non hanno uno sguardo prospettico, sono concentrati sugli affari propri e non si curano di quello che sta succedendo nel loro Paese.