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Destinazione manga, Mara Famularo: "Col mio libro smonto gli stereotipi"

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Gabriele Lippi

Un manuale per orientarsi nel gigantesco mondo del fumetto giapponese, evitando i luoghi comuni e cercando il titolo perfetto per i propri gusti. L'intervista all'autrice

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Si fa presto a dire manga. E quasi sempre si fa pure male, quantomeno se si vuole generalizzare su un universo composito ed estremamente complesso. Il manga non è un genere, non è un prodotto per una determinata fascia d’età, non presenta sempre le stesse caratteristiche e non è uno stile di disegno. Il manga è fumetto in Giappone, secondo la tradizione e la cultura giapponese, ma con una gamma espressiva e un bouquet di tematiche enorme. Mara Famularo lo ha scoperto intorno ai 20 anni, quando, da studente universitaria, si è approcciata alla lettura del manga per scopi accademici. E ora ha deciso di dare il suo contributo per sfatare qualche stereotipo e luogo comune con il suo Destinazione manga. Alla scoperta di mondi, storie, protagonisti (Il Mulino, 168 pagine, 13 euro). L’abbiamo intervista.

Parto con una domanda che può sembrare una provocazione. Tu inizi il tuo libro invitando il pubblico a leggere i manga. Ma c’è davvero bisogno di fare questo invito visto lo straordinario successo dei manga?
In realtà questo doppio invito parte dalla mia esperienza personale. Anche prima di mettermi a lavorare al libro ho avuto l’occasione di parlare con diverse persone, in particolare genitori di ragazzini e ragazzine che leggono manga, genitori che hanno più o meno la mia età e quindi sono cresciuti coi cartoni animati giapponesi, eppure nutrono una diffidenza e un timore verso quel mondo. Così ho pensato che certa propaganda e certa diffidenza è più diffusa di quello che sembra. Inoltre io stessa ho cominciato intorno ai 20 anni a leggere i manga, e mi è sembrato utile sottolineare anche se i manga ci sembrano estranei, in realtà ci appartengono già.

 

I manga oggi occupano una fetta importante del mercato fumettistico italiano, quasi il 60% secondo i dati che abbiamo, con una crescita di fatturato esponenziale negli ultimi anni. Secondo te perché hanno tutto questo successo?
In parte c’era già prima ma non era così evidente perché i manga venivano venduti sostanzialmente nelle fumetterie, che non sono censite dalle ricerche sulle vendite. Durante la pandemia poi, grazie agli anime in streaming, tanti adolescenti hanno riscoperto l’universo dei prodotti di intrattenimento di origine asiatica, in particolare giapponesi, ed è stato normale che si innamorassero dei manga perché sono tra i prodotti culturali che mostrano più attenzione nel racconto dell’adolescenza a 360 gradi, con storie di avventura o con storie più legate alla realtà dei problemi di quell’età: dall’amicizia, al bullismo, alla scoperta della sfera sessuale. Cose che un po’ mancano nei libri per adolescenti di taglio occidentale.

Nonostante la loro straordinaria popolarità, i manga subiscono un certo pregiudizio. Tu parli in particolare di quelli che c’erano tra gli anni ’80 e ’90, con accuse di traviare l’educazione dei giovani (un po’ come accaduto con i videogame, alcune serie tv, oggi con la trap). Oggi esistono ancora pregiudizi che riguardano più la qualità artistica e letteraria del manga.

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Perché?
Banalmente perché il grande pubblico non ha idea di quanto il manga sia un mondo esteso e composito. Probabilmente anche per effetto dei vecchi pregiudizi che ogni tanto tendono a riaffiorare, viene associato semplicisticamente all’idea di fumetto superficiale, con troppo spazio a un erotismo diseducativo, combattimenti e violenza, ma è come se qualcuno liquidasse il cinema italiano con il filone dei cinepanettoni. Ci sono fumetti che non hanno grande spessore artistico ma anche altri con disegni bellissimi e storie complesse, rivolti a un pubblico adulto e che vanno scavano le psicologie più in profondità. Il manga è la totalità del fumetto giapponese, dentro c’è tutto, l’opera scadente e l’opera d’arte. Non è immediato trovare la lettura che fa per noi ma da qualche parte c’è. Oggi viene questa complessità emerge più facilmente perché ci sono tantissimi editori e marchi editoriali, ognuno di loro con la sua specificità.

 

Tu dichiari nel tuo libro di esserti approcciata ai manga in età adulta e inizialmente per curiosità accademica. Sei riuscita comunque a recuperare la passione anche per quei titoli pensati esplicitamente per un pubblico più giovane come gli shonen o gli shojo?
In realtà sì. Ovviamente ci sono titoli shonen e shojo esplicitamente rivolti agli adolescenti e lì l’identificazione avviene solo se riesci un po’ a immedesimarti nella te stessa adolescente. Ma, un po’ come nella letteratura per l’infanzia e l’adolescenza, ci sono romanzi pensati per quel target ma bellissimi da leggere anche da adulti.

 

Dentro al tuo libro citi tanti titoli ed è difficile, in un universo tanto ampio di pubblicazioni, andare a consigliare questa o quella lettura. Però immagino che tu abbia dei titoli a cui sei più affezionata. Quali sono?
Sono molto affezionata a L’uomo che cammina di Jiro Taniguchi perché è stata l’opera con cui ho scoperto che il manga poteva andare molto oltre quel pregiudizio che anche io avevo e poi perché rappresenta ad alti livelli un filone che nel manga è molto presente e io amo che è lo slice of life, un racconto fatto di niente che però ti fa immedesimare col personaggio attraverso la sua quotidianità. E poi sicuramente una delle mie serie preferite in assoluto è 20th Century Boys di Naoki Urasawa perché è una rivisitazione in chiave adulta di una tipologia di fumetto per più giovani, una grandissima epopea il cui messaggio è “bisogna tornare bambini per sistemare i problemi del mondo”.

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Molti autori ed editori italiani ed europei oggi seguono la via del manga occidentale. È possibile secondo te replicare il successo del fumetto giapponese trasportandone gli stilemi in contesto europeo o americano?
Replicare forse non è la parola adatta, nel senso che il manga prodotto in Giappone attira i lettori proprio per la sua esplicita giapponesità. Penso che di sicuro le nuove generazioni di disegnatori e aspiranti fumettisti, che molto spesso hanno proprio tra i manga le prime letture, attingano spontaneamente a quell’universo visivo creando storie che hanno una caratteristica di ibridazione e rappresenteranno una cifra stilistica completamente nuova. Un po’ è già successo ma con le prossime generazioni ci saranno esperimenti più complessi e meditati: me ne accorgo anche dalla scuola di fumetto che frequento.

 

Davvero questa strada è l’unica possibile per risollevare le vendite del fumetto occidentale?
Penso che gli autori e le autrici che stanno già creando in questo senso ibride lo faranno sempre di più non cercando di imitare sempre di più in maniera fredda il modello giapponese ma trasformando in una propria cifra ciò che amano negli autori giapponesi. Un po’ quello che è sempre stato fatto ma basandosi sui capolavori del fumetto occidentale. Oggi ci saranno più modelli e più fonti di ispirazione e questa cosa finirà con l’arricchire piuttosto che appiattire le possibilità del fumetto futuro.

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Che poi questa ibridazione tra tradizioni fumettistiche diverse è già presente da decenni in diversi autori giapponesi: penso a Taiyo Matsumoto o allo stesso Urasawa…
Sono perfettamente d’accordo con te. Ora che il fumetto giapponese comincia a essere più conosciuto in tutte le sue particolarità e differenze, semplicemente ci saranno nuovi punti di partenza per creare nuovi linguaggi. Molti autori giapponesi è vero, lo hanno già fatto, c’è da dire che autori come Jiro Taniguchi che percepiamo come più vicini alla sensibilità occidentale, in Giappone non sono poi così famosi e sono sempre rimasti un po’ fuori dai circuiti del fumetto mainstream. Però l’esempio di Naoki Urasawa che ormai è famoso ovunque, anche in Giappone, denota che i mangaka forse anche più lungimiranti hanno sempre cercato di trovare la loro specificità, a maggior ragione in un mercato come quello giapponese che è pienissimo di proposte e dove la necessità è quella di distinguersi. E molto spesso distinguersi significa cercare una specificità più particolare, qualcosa di più ampio e più artistico. Un altro esempio è Tazuki Fujimoto, autore di Chainsaw Man, che decostruisce gli stilemi dello shonen con la sua sensibilità cinica, ironica, nichilista, ma con una padronanza del genere straordinaria, ed è uno degli autori più venduti in Giappone: chiaro segnale che uscire dagli schemi può premiare anche commercialmente.

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