L'intervista ad Adriano Pantaleo, ex bimbo del cast e oggi attore 39enne, che ritrova i suoi ex compagni di classe in un docufilm dal titolo simbolico: “Noi ce la siamo cavata”, al cinema in molte città d'Italia. E al se stesso di trent'anni fa dice: "Ho mantenuto la promessa"
"In questi trent’anni la domanda che mi ha accompagnato nel corso della mia vita personale e professionale, quando mi riconoscono, è: ma che fine hanno fatto gli altri bambini di “Io speriamo che me la cavo”?"
Inizia così il nostro dialogo con Adriano Pantaleo, trent’anni fa noto come Vincenzino nel film cult di Lina Wertmuller, con Paolo Villaggio nell’indimenticabile ruolo del maestro Sperelli. Li abbiamo amati, questi bambini allegri nonostante il contesto in cui vivono (e già lavorano pur così piccoli), trascinati tra i banchi dal maestro genovese Sperelli, trasferito per errore lì nella scuola di Corzano, città dolente e degradata e per questo magnetica. Un film che ha segnato la storia di più generazioni, con la sua amara leggerezza, la sua irresistibile e malinconica ironia. Pantaleo, oggi attore 39enne, ha deciso di rispondere a quella domanda con un documentario dal titolo simbolico: “Noi ce la siamo cavata”, che dopo aver partecipato al Torino film festival, arriva al cinema in tutta Italia partendo da Napoli ma toccando dall’11 Gennaio Milano, poi Roma, Bologna, Bari, Matera, Potenza, Firenze e tante altre città, e distribuito da “Lo Scrittoio”.
Il docufilm di Giuseppe Marco Albano celebra il trentennale del film nato dal romanzo di Marcello D’Orta, anch’esso un cult degli anni Novanta, e sboccia nell’incontro di Pantaleo con Lina Wertmuller, che non solo – racconta l’attore – si dimostrò entusiasta del progetto ma ne appoggiò anche la nascita.
Di cosa parla il docufilm “Noi ce la siamo cavata”
C’è tanto da scoprire nel docufilm: interviste, backstage, scene mai andate in onda. Adriano Pantaleo è co-autore, co-produttore ma anche “autista” della storia. Proprio così: si mette alla guida dello scuolabus e ritrova i suoi compagni. Il docufilm è il racconto delle vite di quei ragazzini, che si dipana sul filo dei ricordi. Ma non solo questo. "Con la nostra reunion – spiega Pantaleo - si raccontano trent’anni di vita, di storia, di umanità, di Napoli ma anche d’Italia perché tanti poi sono andati via. Raccontiamo quel cinema che non esiste più, quei bambini di Napoli costretti al lavoro minorile, una realtà ieri diffusissima che oggi è cambiata". Un cambiamento che l’attore napoletano giudica positivo, ovviamente per certi aspetti, meno per altri: "Oggi sono padre di un bambino di 11 anni e uno di 4 e mezzo – racconta - ed è complicato dare loro quei valori che noi avevamo, l’apprezzare quello che si ha, la genuinità di quegli anni. Noi siamo stati visti da tutta Italia, ma non ci siamo mai sentiti delle star né ci siamo mai comportati da tali. C’era un tipo di società diversa, nel senso che sapevamo che dovevamo studiare e lavorare sodo perché la vita era tanto altro, non solo quel momento di celebrità. Al contrario, oggi si cade a volte nell’equivoco dei follower e dei social, ci si sente subito "arrivati", si pensa che non ci debbano essere studio e lavoro per ottenere dei risultati".
Che fine hanno fatto i bambini di “Io speriamo che me la cavo”
E veniamo alla domanda alla quale ha risposto in prima battuta il docufilm. "Mario Bianco che impersonava Nicola, che era il bimbo abituato alla seconda e terza brioche, oggi vive a Torino e ha aperto due cornetterie, una vita intersecata con la brioche – scherza Pantaleo – Carmela Pecoraro, che era nel ruolo di Tommasina, ha proseguito la carriera d’attrice anche in ruoli importanti, per esempio ne “L’amore molesto” di Martone, e poi ha abbandonato, non senza qualche rimpianto. Ciro Esposito, come me, ha continuato invece la carriera di attore. Gennarino “il cartonaro”, alias Dario Esposito, è diventato un mio familiare, perché si è sposato con mia cugina. E poi ce ne sono tanti altri, qualcuno ha avuto incidenti di percorso, ma oggi tutti hanno vite tranquille, molti hanno figli, non tutti sono percorsi lineari ma sono felice di poter dire che 'ce la siamo cavata'". Quanto alle proprie emozioni e sensazioni, “l’autista” Pantaleo ricorda, tra i materiali inediti, una sua intervista quando, a soli sette anni, diceva al regista che avrebbe voluto fare l’attore e che gli piaceva questo mestiere perché lo faceva sentire speciale: eppure lui ci ha messo tempo a capirlo, la vita lo ha portato a percorrere altre strade e poi a tornare su quella iniziale, fino a diventare, oggi, un attore di cinema, teatro e tv. "A quel bambino di trent’anni fa direi: tu avevi le idee chiare perché dicesti che volevi fare l’attore, io ci ho messo tanto a capirlo ma ce la stiamo cavando e continueremo a cavarcela. Ho mantenuto la promessa".