La gabbia di Silvia Ziche, dramma e commedia nel rapporto madre-figlia

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Vittorio Eboli

Un viaggio a metà tra psicomagia e sogno: l'autrice disneyana esplora la relazione di Serena (nome super ironico) con la defunta madre, incapace di 'spezzare la catena' dei fardelli che vengono buttati sulle spalle delle generazioni successive. Tra comicità e dolore, un fumetto che tutti dovremmo leggere.  

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È un percorso interiore che forse tutti noi, anzi leviamo il forse, dovremmo fare. Tutti, chi è genitore e chi non ha figli, chi ha famiglia e chi no, chi ha una relazione affettiva stabile e chi, invece, non trova mai il partner giusto. E riproduce sempre lo stesso loop, lo stesso schema emotivo.

Silvia Ziche, acclamata autrice disneyana e creatrice della popolare “Lucrezia”, mescola ironia, dolore, rabbia e desideri in “La gabbia” (Feltrinelli Comics, 144 pagine), il ‘regalo di Natale’ (ma a questo punto pure per la calza della Befana!) suggerito da Fumettopolis. Perché fare un viaggio così, dentro di sé, è un regalo per vivere meglio.

Visto che “l’infelicità è un’arte che si apprende fin da piccoli, grazie all’insegnamento di chi ci ha preceduti” – si legge nelle note della casa editrice – va appreso anche il modo di interrompere la catena, generazione dopo generazione, dello stesso, automatico, gesto: passare il proprio pesante fardello a chi viene dopo di noi. È quello che cerca di fare Serena (nome perfettamente ironico) quando sua madre muore.

E inizia il viaggio (personale e allo stesso universale) nelle sue emozioni e nel suo inconscio.

Come nasce l’idea del libro?

“Avevo bisogno di prendere appunti su una cosa che mi tornava sempre in testa, il rapporto non facile con mia madre; erano appunti, inizialmente non pensavo che sarebbero diventati un libro. Poi ho iniziato a leggere tanto sul tema della ‘maternità non riuscita’, sui rapporti familiari difficili. Alla fine ho riletto ‘Gita al faro’ di Virginia Wolf: lei ora ossessionata dal pensiero della madre morta, e con lo scrivere il libro l’ossessione le era passata”.

Quasi un atto di ‘psicomagia’ alla Jodorowsky, una azione materiale che incide per sempre la psiche. Anche con lei è riuscito?

“Non del tutto! Però si è attenuata molto, in me, questa ossessione. Io volevo raccontare l’essenza, il distillato del disagio, non la persona di mia madre o i fatti avvenuti tra noi. Su questo, molti racconti del genere sono troppo ricchi di particolari, espongono troppo le altre persone di cui si parla, è un modo di narrare troppo invadente. Perciò ho scelto ambientazioni più… oniriche”.

Nel libro le protagoniste sono Serena e la sua (neo)defunta madre. Perché il padre è del tutto assente?

“Ho volutamente tolto le altre persone della famiglia, perché non aggiungevano elementi funzionali: era un ballo a due, come detto il mio fumetto non vuole essere il racconto di una famiglia, ma una specie di dialogo, che si svolge nella mente della protagonista”.

Una riflessione non sull'essere genitori quindi ma sulla maternità. 

“Il filo conduttore è che manca un dialogo costruttivo tra madre e figlia; non volevo denunciare o condannare o recriminare, volevo solo capire. Nel libro emergono due rimpianti: di un dialogo mai avuto, e di un problema che non si è riusciti ad affrontare, da ambo i lati. Quindi, è un dialogo, in fondo, con i propri fantasmi”.

Emerge nel libro un elemento psicologico fondamentale: la ripetizione di schemi. C’è una scena esemplare, in cui Serena è seduta su un divano, e cambiano a ogni vignetta solo le persone sedute accanto a lei. Sono i suoi partner che si succedono, tutti diversi, tutti uguali nella postura con cui le volgono le spalle.

“Rappresentano un loop: Serena ama sempre uomini uguali tra loro, cerca sempre persone che guardano altrove. Proprio come sua madre guardava altrove, presa dai suoi dolori. Anche io ho fatto il mio percorso di terapia, e ho riconosciuto questa tendenza a ripetere l’unica forma d’amore che abbiamo conosciuto fin da piccoli, l’unica che l’inconscio conosce e tende a ripetere all’infinito. E quando mi sono colta in castagna, mi sono spaventata: pensiamo di decidere della nostra vita, ho pensato, e invece non decidiamo niente. Continuiamo lo schema".

Come un circuito stampato immutabile. E come si fa ad uscirne?

“Solo mettendosi per bene a cercare di capire. Io nel libro provo a raccontare che, per uscire dal loop, devi prima riconoscere il loop, gli schemi mentali che inconsciamente ripetiamo. Solo da quel momento se ne può uscire. Non puoi uscirne finchè non vedi che sei tu che cerchi quella situazione. È una strada che comporta assunzione di responsabilità: io prima non facevo nulla per curarmi, perché ero sicura che quel malessere e quelle situazioni negative non dipendessero da me”.

Altro elemento centrale (più che in psicologia qui siamo dalle parti delle Costellazioni) è la catena in cui una generazione scarica sulla successiva il proprio fardello. Condannandola.

“Li hanno messi, quei sacchi grossi e pesanti con cui rappresento questi fardelli, anche sulle spalle della madre di Serena: non li ha creati lei, gli sono stati passati. Ma lei non è riuscita a interrompere la catena, a uscire da quello schema. Non è cattiva, semplicemente non è stata in grado di risolvere i problemi, e quindi non può far altro che trasmetterli: non puoi considerare una colpa ereditare una sofferenza e non essere in grado di capirla”.

Dal punto di vista grafico, il fumetto ha un segno molto asciutto, senza colori, quasi onirico.

“Volevo una ambientazione surreale, tra personaggi che vivono nella testa della protagonista, un luogo che non esiste. Ci ho messo tanto tempo, cinque anni, perché continuavano a tornarmi in mente immagini e pensieri che, in qualche maniera, mi perseguitavano. La mole di appunti era notevole, per metterla in un libro c’è voluto tempo, anche per affrontare l’argomento con emozioni non troppo recenti: avevo bisogno di lucidità, di guardare quella mole di emozioni con la giusta dose di razionalità”. 

Una tavola del libro

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