Profondo conoscitore di Vincent Van Gogh, Marco Goldin, sceglie l'espediente letterario del diario per raccontare le ultime settimane di vita del genio olandese. L'intervista
Per l’unica presentazione della sua nuova opera - edita da Solferino - Marco Goldin ha scelto un luogo bellissimo e appartato, l’antico Lanificio Paoletti che dal 1795 produce lane pregiate in quel di Follina (Tv), borgo celebre per la splendida abbazia benedettina, sulle colline trevigiane diventate due anni fa sito Unesco. Qui lo scrittore è di casa.
A quest’unica presentazione pubblica, in forma di recital, farà seguito il tour teatrale, che nasce dal romanzo e che partirà il 5 novembre con la data zero dal teatro di Salsomaggiore Terme (Parma). La prima nazionale sarà al Politeama Rossetti di Trieste, l’8 novembre.
Perché hai deciso di raccontare questa storia?
La storia delle ultime settimane della vita di Van Gogh mi ha sempre affascinato. Ho fatto sei mostre monografiche su di lui, per un totale di due milioni e mezzo di visitatori. L’ho anche inserito in tantissime mostre di carattere tematico, ho esposte centinaia di opere di Van Gogh, come credo nessuno abbia fatto nel mondo, al di là – ovviamente – del Museo Van Gogh.
All’interno della sua vita, che a mano a mano sono venuto a studiare, sono 25 anni che studio Van Gogh, l’ultimo periodo mi ha sempre affascinato molto, anche perché è sempre stato, dal punto di vista pittorico, non dico un momento trascurato, ma insomma meno considerato degli altri. Meno considerato, soprattutto, dei due anni e poco più vissuti in Provenza: i campi di grano, il giallo, l’azzurro, i colori complementari. Lo struggimento degli ultimi anni della sua vita è incredibile, ha fatto dei capolavori fantastici, anche ad Auvers. Lo studio, soprattutto delle lettere, mi ha portato a concentrarmi tanto su questo periodo finale, scrivendo due anni fa la grande biografia, che era uscita per La nave di Teseo. E’ di cinque anni fa la decisione di scrivere un romanzo “in nome e per conto di Van Gogh”, quindi, con le mie parole, facendo ritrovare questo diario fittizio al titolare della locanda dove Vincent ha vissuto nelle ultime settimane della sua vita. Avevo scritto le prime pagine e le avevo lasciate lì, preso da altre cose. Un anno fa sentivo questo progetto che continuava a bussare dentro di me, mi sentivo pronto per farlo, avevo riletto per l’ennesima volta tutto l’epistolario; avevo “miliardi” di pagine di appunti, quindi, ho deciso che era il momento di raccontarlo.
Qual è stata la sfida da vincere per realizzare questo progetto?
La sfida è stata prestare le parole a Van Gogh e non scrivere cose inesatte. Il romanzo è basato su fatti assolutamente veri; quello che ho cercato di fare è stato lavorare su un grande approfondimento psicologico e colmare quelle lacune di date che ci sono negli ultimi due mesi della sua vita. Sono mesi particolari, vanno verso la morte e visti a ritroso si capisce tutto questo. Ci sono tantissime giornate in cui lui non scrive delle lettere, dipinge tantissimo, dipinge in media più di un quadro al giorno: 77 quadri in 70 giorni ad Auvers. Si concentra molto sulla pittura, la pittura è la terapia che il suo medico, il dottor Gachet, gli aveva assegnato: dipingere il più possibile per staccarsi da questa malinconia che lo avvolgeva. Quindi, mi è molto piaciuto, immergendomi dentro la sua personalità, colmare queste giornate in cui lui non aveva scritto niente, facendogli scrivere anche in quelle giornate dei fogli di diario. Lui parla meno, nei due mesi precedenti alla morte, della sua pittura. Quindi, conoscendo i luoghi molto bene dove lui ha dipinto, avendoci io camminato tantissime volte, dalle miniere in Belgio, fino ai posti in Olanda, alle brughiere, tutta la Provenza e chiaramente Auvers, gli ho fatto raccontare dei suoi quadri, di quelli che stava facendo e - con diversi flashback - l’ho fatto ritornare alla sua infanzia, a volte. Quindi, l’ho fatto riandare al ricordo di alcune figure, in modo particolare quelle della famiglia. Ci sono pagine toccanti dedicate al padre, che faccio nascere come riflessione dalla visione istantanea del dottor Gachet, che esce da una stanza.
Che tipo di storia si troverà davanti il lettore?
Una storia, sì, delle ultime settimane della sua vita, ma anche nella sua interezza, perché tutto questo lavoro che ho fatto su questo flashback, ci consegna un Van Gogh che parla in prima persona. Ovviamente, sia ben chiaro, lo fa con le mie parole, ma ci consegna una storia veramente a tutto tondo.
E’ difficile raccontare una rockstar dell’Arte?
Ormai è quasi un amico, per me, Van Gogh. E’ una presenza che c’è sempre, continuamente, mi serve per approfondire tante cose, non lo sento assolutamente come un limite, quello di poter scrivere un’altra volta di lui. L’ho fatto in un modo completamente diverso dalle altre volte, perché chiaramente lavorare sull’idea del diario ritrovato è una cosa del tutto diversa rispetto allo scrivere una pur enorme biografia. E' un lavoro da storico dell’Arte, anche se a leggere alcune pagine di quella biografia, si capisce che è sempre un lavoro fatto a mio modo, perché ci sono tante pagine anche di carattere più letterario, più poetico, ma questo è il mio modo di affrontare la vita, in primis, ma è anche il mio modo di affrontare la Storia dell’Arte. Quindi, nessun timore, non lo penso come una rockstar. Penso a Van Gogh come a un’anima straordinaria e questa, una volta ancora, in un modo diverso naturalmente, ho voluto raccontare.