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"Fiori affamati di vita", Veronica Plebani: "Un romanzo? Più facile di una Paralimpiade"

Lifestyle

Gabriele Lippi

L'adolescenza, la malattia, la ripresa. Per riscoprirsi e riscoprire il mondo. L'atleta paralimpica italiana rivive la sua storia in un libro di grande intensità pubblicato da Mondadori. Andando oltre i confini dell'autobiografia

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Veronica ha 15 anni e una vita da adolescente piena di sogni e speranze quando, all'improvviso, si ritrova sul letto di un ospedale per una meningite fulminante batterica. Per cento giorni rimane chiusa tra le pareti di una stanza asettica, accompagnata da tre infermiere di nome Betty, a fare conoscenza con una nuova sé, con le cicatrici lasciate dalla malattia, con piedi e mani privati parzialmente delle dita. "Un fiore che ha bisogno di ruggire", e che lo fa. Fiori affamati di vita (Mondadori, 236 pagine, 17 euro) è la storia di Veronica Yoko Plebani, atleta paralimpica capace di passare dal kayak allo snowboard e dallo snowboard al triathlon, ancora giovanissima (ha compiuto 24 anni lo scorso 1 marzo) ma già piena di esperienze ed energia che ha sentito il bisogno di comunicare nel suo primo libro. Che no, a sorpresa, non è un'autobiografia.

Veronica Yoko Plebani sul suo kayak

Di tutte le parole del libro, ce n'è una che mi ha colpito particolarmente, sta scritta sulla copertina ed è romanzo. I campioni dello sport scrivono normalmente autobiografie, lei no. Perché?

Quando racconto di me sembra sempre che sia una persona lontana, che prenda le distanze dagli altri, mi dicono "ma sì, tu riesci a far tutto perché sei tu". Stavolta volevo rendere la storia più universale, non mettere al centro di tutto il mio carattere. Col romanzo mi liberavo dal mero racconto dei miei eventi ed essere più vicina a tutti e tutte.

 

Però la protagonista si chiama come lei e ha vissuto le sue stesse esperienze.

Sì, sono io, solo che volevo prendermi una libertà diversa raccontando anche cose molto personali potendo uscire dalla mia storia personale.

 

Facciamo un gioco: proviamo a dire quanto c'è di autobiografico in percentuale.

Direi un buon 85-90%. I fatti sono quelli ma un po' rielaborati, raccontati con un occhio diverso, quello di una persona che ha visto tante cose. Sono la Veronica di oggi che guarda la Veronica di ieri. Guardando al passato con il bagaglio di esperienze attuali si può fare un'analisi diversa.

 

Cosa sono invece i fiori affamati di vita del titolo?

Siamo tutti noi quando riusciamo a trovare la nostra voglia di farcela in tutte le situazioni. Il mio è un po' un augurio ché tutti troviamo la nostra primavera, in cui sentiamo il bisogno di ruggire e come fiori di rifiorire.

Quanto è stato difficile trovare le parole giuste per raccontare la sua storia?

Sicuramente riuscire a raccontarla dando il peso giusto alle cose è stata una nuova sfida abbastanza impegnativa. Senza Francesca, la mia amica con cui ho scritto il libro, che ha una creatività di lessico altissima, sarebbe stato ancora più difficile. Lei ha visto il mio percorso da esterna e questo ha aiutato certamente nel processo di scrittura.

 

Francesca e Lu, la sua migliore amica nel romanzo, sono la stessa persona?

No, ecco, Lu è probabilmente l’elemento più romanzato di tutto il libro. E tutti ci rimangono male quando rivelo che in realtà non esiste. È un collettore di alcuni aspetti di diverse mie amiche, persino una parte del mio carattere, quella più riflessiva e introspettiva, è affibbiata a Lu. C'è tanto di Francesca in Lu, ma anche di me.

 

Il romanzo presenta un gruppo di personaggi che ruotano intorno alla protagonista come satelliti.

Ed esistono davvero, molto simili alla realtà, anzi, i miei genitori forse sono pure più "pazzi".

 

Poi ce n’è uno che pur non comparendo mai fisicamente percorre tutto il libro. Lo zio Laerte. Che influenza ha avuto su di lei?

Zio Laerte è in realtà lo zio Claudio, fratello di mia nonna, l'ho visto poco ma mi ha segnata tantissimo, quella filostrocca presente nel libro l'ha scritta davvero lui, vedendomi giocare in giardino, un giorno che era di passaggio. Ancora oggi, quando la leggo, mi ci trovo così tanto da creare un forte legame con lui. È stato importantissimo nella mia formazione, così come mia nonna, che invece non è tra i personaggi del romanzo.

Più difficile scrivere un libro o preparare una Paralimpiade?

Preparare la Paralimpiade. Il libro è stato una nuova sfida che non sapevo come affrontare, ma Mondadori mi ha aiutata molto, mi ha concesso il tempo e la libertà di cui avevo bisogno. Il percorso per le Paralimpiadi, invece, è lungo, sono quattro anni di fatica e lavoro affrontati quotidianamente.

 

Quali sono le sue parole preferite nel libro?

La parte a cui sono più legata, quella che ha fatto scaturire il titolo, è il momento in cui in ospedale io penso "mi sento come un fiore che deve imparare a ruggire". Un fiore che ruggisce è qualcosa di apparentemente impossibile, qualcosa che non è data al suo essere. Eppure succede, alla fine anche un fiore ha imparato a ruggire.

 

Vero, Very, Yoko, Veronica, Taitù. Così la chiamano nel romanzo. Tanti nomi per la stessa persona.

Sono sempre io, una scatola piena di cose, una ragazza fatta in modo complesso come tante altre persone. Una sportiva che ama viaggiare ma anche stare da sola, che studia, si riempie di progetti, iperattiva.

 

Irrequieta, nel senso migliore del termine.

Sì, esatto, non riesco mai a stare ferma, ho sempre bisogno di nuovi stimoli. Facevo sport prima, ho ripreso dopo la malattia, ho partecipato alle Paralimpiadi di Rio 2016 nel kayak, ho fatto snowboard, ora faccio triathlon, e forse questo sport ha in sé un po' l'essenza dell'essere irrequieti. Con le sue tre discipline è lo sport che mi si addice di più, mi dà così tante variabili che soddisfano la mia complessità.

 

Dopo Rio, Tokyo?

Speriamo di sì. Già quest'anno ero quarta nel ranking, avevo i punti per la qualifica, da febbraio si riparte e si spera fare gare internazionali per essere in Giappone l'anno prossimo. È un obiettivo abbastanza concreto.