Dazi Usa, per la Commissione europea l’Italia è tra i Paesi più esposti

Poteva andare peggio, si disse all’epoca dell’intesa sui dazi tra Unione europea e Stati Uniti. E probabilmente è così. Alla base dell’accordo, come noto, c’è una tariffa onnicomprensiva del 15% che prevede però una serie di eccezioni per alcune tipologie di prodotti, con percentuali che possono essere più alte ma anche più basse rispetto a quella soglia. Altri Paesi e altre aree del mondo hanno dovuto accettare condizioni finali decisamente più sfavorevoli. E quindi sì, per il Vecchio continente non è andata poi così male. Questo non significa però che non ci saranno conseguenze negative sia per l’area nel suo complesso sia per i singoli Stati membri. Soprattutto per quelli che dipendono maggiormente dal commercio transatlantico o che esportano negli Usa una più ampia quota di beni a cui si applicano tariffe più alte. Due caratteristiche che riguardano, entrambe, il nostro Paese. E infatti secondo la Commissione europea nel novero delle economie che rischiano di soffrire più profondamente per le politiche commerciali americane c’è anche l’Italia. Vediamo perché. L’indicatore della Commissione Per capire quali sono i Paesi comunitari più esposti all’aumento dei dazi statunitensi, l’organo esecutivo dell’Unione europea ha recentemente elaborato una statistica apposita che tiene conto di due fattori. Il primo è la struttura dell’export, ovvero quali beni effettivamente uno Stato esporta negli Usa e le specifiche tariffe relative a quei prodotti. Per esempio, un export composto in maggior percentuale da ferro, acciaio, alluminio, veicoli pesanti e macchinari rischia di più dal momento che su questi prodotti gli Stati Uniti applicano dazi più alti. Al contrario, chi vende farmaceutici e velivoli dovrà fronteggiare tariffe generalmente più basse. Il secondo fattore che confluisce nell’indicatore elaborato dalla Commissione è invece la quota di esportazioni che viaggia verso l’altra sponda dell’Atlantico calcolata in percentuale rispetto al Pil: più è alta, maggiore è la probabilità di risentire del nuovo protezionismo economico del governo americano. Il risultato della combinazione di questi due elementi offre una stima della vulnerabilità di un’economia rispetto ai dazi a stelle e strisce. E se per l’Unione nel suo complesso l’indice corrisponde allo 0,3%, per alcuni Stati membri è più alto. Tra questi, come si diceva, c’è anche l’Italia che, scrive la Commissione europea, soffre in entrambi i componenti dell’indicatore: “Germania, Slovacchia, Austria, Italia e Svezia sono i Paesi più esposti, dal momento che non solo devono fare i conti con un alto tasso effettivo di tariffe, ma le loro economie dipendono pesantemente dalle esportazioni verso gli Stati Uniti. Questi Stati esportano elevate quantità di prodotti altamente tassati, come acciaio, alluminio, veicoli pesanti, prodotti chimici e macchinari". Al contrario, aggiunge lo stesso documento, Malta, Croazia, Estonia, Portogallo e Francia sono esposti in misura più ridotta, dal momento che hanno un tasso tariffario basso e esportazioni verso gli Stati Uniti più limitate. Insomma, il rischio per l'Italia è alto. Anche se non il più alto dell’area Ue. A guidare la classifica della vulnerabilità, con un punteggio superiore allo 0,40%, ci sono Slovacchia, Germania e Irlanda. Subito dietro, con valori comunque sopra la media, figura un gruppo di Paesi nel quale rientra anche l’Italia. La svolta protezionistica Usa: i dati L’indicatore messo a punto dalla Commissione europea è un’ulteriore dimostrazione della preoccupazione da parte dei governi di tutto il mondo per le possibili conseguenze economiche della svolta protezionistica promossa dal presidente americano Donald Trump da quando è tornato in carica. La rottura stabilita dalla sua amministrazione rispetto al passato non potrebbe essere più netta. Nel 2025 le tariffe medie imposte sui beni importati negli Stati Uniti hanno raggiunto i valori più alti da quasi un secolo a questa parte, secondo The Budget Lab at Yale, un centro studi dell’Università americana Yale. Per trovare un altro periodo in cui i dazi statunitensi erano altrettanto pesanti bisogna tornare indietro fino al 1935, quando alla Casa Bianca sedeva Franklin Delano Roosevelt e il Paese stava cercando di riprendersi dalla grande crisi finanziaria del 1929. L’obiettivo di Trump, più volte dichiarato, è rendere più costose e dunque meno convenienti le importazioni di beni e servizi dall’estero per rafforzare la produzione interna, compresa la manifattura, e riequilibrare la bilancia commerciale. Per ora, i risultati di questa strategia sono misti. Negli ultimi mesi le importazioni sono leggermente calate, ma restano comunque ai livelli dello stesso periodo dello scorso anno. Inoltre, la diminuzione dell’ultimo periodo appare più consistente alla luce del balzo in alto delle importazioni nei mesi di gennaio, febbraio e marzo, quando, in previsione dell’aumento dei dazi annunciato dal presidente, le imprese Usa hanno fatto scorte aumentando gli acquisti dall'estero. Discorso analogo per la bilancia commerciale. Gli ultimi mesi hanno visto una sensibile riduzione del disavanzo Usa. Ad agosto, ultimo dato disponibile, il deficit si è fermato a 59,6 miliardi di dollari. Giugno aveva fatto registrare - 59,1 miliardi. Sono i valori più contenuti degli ultimi due anni, segno che le politiche tariffarie dell’amministrazione stanno ottenendo degli effetti. Tuttavia, anche in questo caso bisogna osservare come la riduzione del deficit commerciale degli ultimi tre mesi segua i disavanzi record del periodo dicembre-marzo subito prima dell’introduzione dei nuovi dazi globali.

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Raffaele Mastrolonardo