Trump e i dazi: un passo avanti e due indietro

La recente sospensione, per ora solo temporanea e comunque parziale, dei dazi tra Stati Uniti e Cina evidenzia, al di là di una certa narrativa americana, come l'aggressiva strategia del presidente USA, Donald Trump, si stia scontrando con la realtà e, come minimo, perdendo pezzi per strada. Dopo mesi di retorica muscolare, promesse di rilancio industriale e minacce roboanti, Washington sta quindi tornando sui suoi passi e abbassando i dazi con la Cina dal 145% al 30%, mentre Pechino sembra intenzionata a ridurre i suoi contro-dazi dal 125% al 10%. In sostanza, si torna, quasi, al punto di partenza, con l'unica certezza che miliardi di dollari sono andati in fumo e che l'economia globale è più instabile perché più incerta del futuro, come ha recentemente affermato lo stesso Mario Draghi quando ha dichiarato che "con i dazi siamo a un punto di rottura e nulla tornerà più come prima". Economia americana in sofferenza Guardando alla economia americana i fatti parlano chiaro: le imprese a stelle e strisce, già costrette in passato a dirottare produzioni dalla Cina verso altri paesi come Vietnam e Messico, ora a loro volta sottoposti a dazi esorbitanti, si trovano in questo modo ad affrontare costi ancora superiori e lo fanno con scorte sempre più limitate. Le conseguenze non tarderanno a toccare le tasche dei consumatori, che, in effetti, iniziano ad accusare il colpo con prezzi più alti e meno scelta. L’idea di Amazon, solo abbozzata e prontamente abortita per pressioni di Trump, di esplicitare il costo dei dazi nei prezzi dei beni sulla piattaforma rende plasticamente l’idea della situazione, come anche i rumors di iPhone più cari nel prossimo futuro. Ed anche la recente crisi di Temu, gigante cinese dell'e-commerce, dimostra chiaramente quanto la globalizzazione abbia radici profonde. Così dopo l'imposizione di dazi fino al 120%, Temu aveva sospeso le spedizioni dirette dalla Cina, causando un crollo delle vendite negli Stati Uniti. Solo dopo la riduzione temporanea dei dazi al 54%, l'azienda ha poi ripreso le spedizioni, ma con prezzi più alti e una domanda significativamente ridotta e adesso vedremo come andrà dopo il recente accordo. Ritorno alla realtà Trump aveva annunciato con il trionfalismo che gli è proprio “90 accordi in 90 giorni”. Ad oggi, il risultato è a dir poco deludente: due soli “accordi” significativi, quelli con la Cina e quello con il Regno Unito, ancora tutti da definire. E mentre il presidente americano si vanta del successo, Londra ricorda che questa intesa è molto meno incisiva rispetto a quanto inizialmente promesso. L'accordo con il Regno Unito, in effetti, non è un vero e proprio accordo di libero scambio, ma piuttosto una riduzione o eliminazione di alcune tariffe su specifici beni, con il mantenimento di un'imposta del 10% sulla maggior parte delle merci britanniche. Il prezzo dell'improvvisazione L’amministrazione Trump passa quindi dal promettere la reindustrializzazione del paese quando impone dazi, al discorso di “favorire il mercato” quando li toglie e intanto le imprese restano in balia di questa indecisione e molte sono costrette a sospendere i propri piani di espansione. La volatilità delle politiche commerciali ha infatti generato un clima di incertezza che scoraggia gli investimenti e complica la pianificazione a lungo termine per le aziende, sia americane che straniere. Il ritorno "impossibile" alla manifattura Nello specifico l'obiettivo centrale dei dazi, cioè quello di riportare la manifattura negli Stati Uniti, appare quanto meno utopistico. Difficile, in effetti, credere che le produzioni, fortemente dipendenti da salari contenuti, anche rispetto ai costi della vita dei paesi dove si svolgono, possano magicamente trasferirsi in un paese con standard salariali e normativi molto superiori se non aumentando tremendamente i prezzi e sempre che l’obiettivo non sia, invece, quello di fare un forte passo indietro per quanto riguarda le condizioni di lavoro negli States. La "rivolta" interna A tutto questo bisogna aggiungere che ormai anche gli stessi stati americani iniziano a ribellarsi. Dodici di essi hanno portato l’amministrazione Trump in tribunale, contestando la legittimità costituzionale dei dazi imposti unilateralmente dal presidente. Non è solo una questione politica, ma economica: questi stati individuano infatti nelle politiche commerciali dell'amministrazione centrale un rischio per le loro economie “nazionali”. La Cina vince senza muoversi Parlando, invece, di strategie negoziali, quella di Pechino è stata quella di rimanere ferma nelle sue posizioni, ostentando una tenacia che finora ha pagato e che potrebbe, sulla scorta anche delle decisioni canadesi in tal senso, diventare un esempio da seguire anche per l’Unione Europea. Xi Jinping, infatti, non si è mosso di un millimetro, ignorando del tutto le richieste di incontri avanzate da Trump. Il risultato? La Cina, di fatto, esce rafforzata da questa prova di forza. E l'Unione europea cosa sta facendo? Dal canto suo l'Unione Europea si trova in una posizione delicata in questa “guerra mercantile” dal sapore antico, soprattutto dopo che il presidente Donald Trump l’ha definita "più cattiva della Cina" in termini di pratiche commerciali. Premesso che, pur essendo l'UE esportatrice netta di merci, è anche importatrice netta di servizi dagli Stati Uniti, bilanciando in parte il deficit commerciale è utile ricordare come Mario Draghi abbia recentemente sottolineato quanto l'UE sia esposta al commercio estero, essendo una grande economia fortemente aperta, il che aumenta notevolmente l'esposizione della crescita e dell'occupazione alle misure politiche dei partner commerciali ed in particolare degli Stati Uniti. Strategia attuale dell'UE Nonostante la mancanza di risultati concreti, ricordiamo che il commissario europeo al Commercio, Maroš Šefčovič, ha concluso una lunga riunione a Washington con rappresentanti dell'amministrazione Trump senza raggiungere un accordo per risolvere la disputa tariffaria, attualmente, la strategia dell'UE è improntata alla cautela e alla ricerca di un accordo equo con gli USA. La situazione rimane fluida, con l'UE che cerca di bilanciare la necessità di proteggere i propri interessi economici con l'obiettivo di evitare un'escalation. La strategia attuale sembra essere quella di mantenere aperti i canali di dialogo con gli Stati Uniti, pur preparando misure di ritorsione nel caso in cui le negoziazioni non portino a risultati concreti. Prospettive future: molta cautela e poche illusioni Guardando al futuro, quindi, gli Stati Uniti devono fare i conti con la dura realtà economica e geopolitica. La promessa di rilanciare l'industria nazionale attraverso la guerra dei dazi sembra sempre più un'illusione, mentre i danni accumulati diventano sempre più evidenti. La sfida per Washington sarà quella di gestire un equilibrio delicato tra retorica e realtà, tra ambizioni protezionistiche e necessità di mantenere aperto il commercio internazionale perché, lato Europa, come ha osservato Draghi "qualsiasi speranza che l’apertura al mondo possa sostituire gli Stati Uniti rischia di essere delusa".

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